Mentre continua il dibattito circa la potenziale entrata in guerra dell’Italia in Libia, dalla quale una richiesta d’intervento, formale almeno, non può ancora avvenire mancando tuttora un governo, la situazione a poche centinaia dalle nostre coste rimane assai complicata. Intanto in Siria, e non solo, la matassa politica e militare rimane intricata.
Interroghiamo su tutto questo Marina Calculli, originaria di Matera, ricercatrice Fulbright presso l’Institute for Middle Eastern Studies, Elliott School of International Affairs della George Washington University a Washington DC. Questa giovane studiosa conosce bene il Medio Oriente, avendo vissuto diversi anni tra il Libano, la Siria e l’Egitto, insegnando in varie università e facendo ricerca, e avendo analizzato e viaggiato in molti altri paesi nell’area.
Giungono informazioni apparentemente contraddittorie circa un potenziale coinvolgimento italiano in Libia. Cosa ha da dire su tutto questo?
Temo che siamo schiavi di un certo dilettantismo. Prima abbiamo annunciato che avremmo mandato 5000 soldati e poi, quando l’ambasciatore americano ci ha ringraziati per questo, abbiamo fatto marcia indietro. Vorremo la leadership di una eventuale missione, ma senza mandare soldati.
Rimane quindi una mancanza di chiarezza?
Sì, l’impressione è che il governo sia impegnato più a creare una “narrazione”, come piace dire al premier, che però trova pochi riscontri nella realtà. La narrazione è quella di un’Italia forte in politica estera. Ma contemporaneamente, di fronte ad un’opinione pubblica sfavorevole all’invio di truppe, si smentisce l’invio di 5000 soldati che pure erano stati annunciati al mondo un anno fa e per cui gli USA prevedevano una leadership italiana della missione. Dunque si finisce per fare gaffes piuttosto che ritagliarsi sia un ruolo che una credibilità. C’è poi da dire che, in generale, i contorni di questa possibile missione militare in Libia sono per nulla chiari. E questo è un problema per tutti, e non solo per l’Italia.
Indipendentemente dalle decisioni italiane in merito, è una buona idea intervenire militarmente in Libia, o potrebbe essere la ripetizione dello stesso errore?
Il rischio più probabile è quello di esacerbare il conflitto in corso tra le varie milizie locali e di rimanere invischiati in una guerra asimmetrica intrattabile.
Infatti il famoso ‘invito’ dovrebbe provenire da un’entità politica statuale per ora non esistente.
Lo stato libico esiste sulla mappa, ma nella realtà è un paese frammentato sin dalla morte di Gheddafi, o forse anche prima. Dopo la morte del dittatore comunque si è frammentato in Città-Stato. Anche se si riuscisse a superare la tensione tra Tripoli e Tobruk, la frammentazione resterebbe. Manca un’autorità forte che unisca tutte le entità paramilitari sotto un’unica egida.
E la minaccia dell’ISIS?
L’ISIS non è il problema principale in Libia. Viene considerato “il problema” perché, in vista di una guerra, sarebbe più facile convincere l’opinione pubblica ad approvare una mobilitazione di risorse militari ed economiche con lo spauracchio dell’ISIS. In Libia l’Italia, come altri, ha interessi. Ci sono innanzitutto forti interessi economici da proteggere, legati ai giacimenti di petrolio e gas e al controllo e alla protezione delle coste da cui le esportazioni partono.
Ma come nasce esattamente il fenomeno ISIS in Libia?
Principalmente da un vuoto di potere. Specialmente a Sirte, città natale di Gheddafi. Alla città di Sirte fu imposta una punizione dopo la morte dell’ex dittatore della Jamariyya, impedendole di fatto di auto-amministrarsi. I notabili locali, dunque, per vendicarsi del controllo imposto da Misurata, hanno stretto un’alleanza con Ansar al-Shari’a, che proprio a Sirte si è trasformata in ‘Stato Islamico’. Oggi l’ISIS insiste più a Sabatra. Nelle ultime settimane molti combattenti sono migrati verso la Libia, anche perché l’ISIS sta perdendo terreno in Siria e Iraq. Ma anche qui sono stati dati dei numeri, inizialmente addirittura 6.000 combattenti, poi smentiti, fino ad una stima più realistica che intorno a metà febbraio indicata 1.500-2000 combattenti associati al Califfato. L’ISIS è un problema, ma non un problema militare. Non siamo in presenza di una falange macedone. Sguazza finché manca un’autorità legittima e sfrutta gli scontri tra i potentati locali.
A proposito di Gheddafi, per fare un piccolo passo indietro, si dice che uno dei motivi per cui è stato eliminato è che stava lavorando alla creazione di una valuta africana indipendente…
Io andrei cauta quando si parla di teorie che attribuiscono un fenomeno endogeno ad una causa del tutto esterna. Le rivolte arabe del 2011 sono un fenomeno spontaneo, nato dall’insofferenza delle popolazioni arabe di fronte alle dittature, e si sono influenzate a vicenda, assumendo ovviamente declinazioni diverse perché diversi sono i paesi arabi, le loro storie, le loro economie e le loro società. In Libia come altrove sono intervenuti interessi esterni che hanno capitalizzato sul disordine interno, deviando le rivoluzioni, sopprimendole o trasformandole in qualcosa di differente e più in linea con gli interessi esterni.
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Quindi questo si applica alla situazione in Siria?
Certo. La rivoluzione contro Bashar al-Assad è stata completamente deviata dall’esterno, da parte di potenze che condividevano con le piazze l’obiettivo di eliminare Assad ma non avevano simpatia per gli slogan della rivoluzione, la richiesta di libertà e di democrazia. Ma se vogliamo anche in Barhain c’è stato un intervento esterno che ha soffocato del tutto la rivolta per mantenere lo status quo, preferibile sia ai paesi del Golfo che all’America che lì ha la sua Quinta flotta.
Sempre in Siria, fermo restando che Bashar Assad non è un santo, è da poco uscito un articolo di Robert Kennedy Jr. nel quale si dice che il tentativo di spodestarlo nasce dal suo rifiuto di far passare per il suo paese un oleodotto proveniente dal Golfo Persico.
E’ una teoria vecchissima e noiosa. Qualcuno davvero pensa che per i primi 6 mesi della rivoluzione, da Marzo ad Agosto 2011, migliaia di siriani abbiano continuato a scendere in piazza in modo pacifico chiedendo libertà, prima che la rivolta si trasformasse in lotta armata, facendosi ammazzare dal regime, solo perché qualche magnate del gas o qualche governo straniero aveva imposto a, ripeto, migliaia di persone di scendere in piazza? Come spiegano questi complottisti che i Siriani sono adesso scesi di nuovo in piazza dopo l’approvazione del cessato il fuoco, dopo 5 anni di massacri e distruzione, per continuare la rivoluzione contro il regime oppressivo di Assad e con la bandiera della rivoluzione, non quelle nere. Si guardi cosa succede oggi nelle strade delle città siriane distrutte a Daraya, a Daraa, ad Aleppo a Idlib… Le manifestazioni continuano. Penso che i Siriani sappiano bene, ora come allora, o comunque ora molto più di allora, di non poter contare dopo questi 5 anni né sulla NATO, né sul Golfo né su nessuna presunta compagnia del gas disposta a proteggerli dalla brutalità del regime. Eppure continuano ad andare in piazza. C’è una cosa sempre troppo poco considerata quando si parla o si specula delle società arabo: la dignità, “karama” in arabo, una parola gridata da Tunisi al Golfo nel 2011 e che oggi continua a muovere le piazze siriane. Nel cercare di spiegare perché tante persone scendono in piazza a morire varrebbe la pena di guardare, oltre ai grandi interessi, ogni tanto anche a quello che dicono coloro che scendono in piazza.
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Qual è la politica USA verso la Siria?
Gli USA hanno cercato di perseguire un cambio di regime, soprattutto affidandosi alla Turchia, da Ottobre 2011 fino a settembre 2013. Erano cauti nei primi mesi e sono diventati ancor più cauti adesso. La virata di Obama si è palesata quando gli USA hanno raggiunto un accordo sulle armi chimiche con il regime di Assad a Ottobre 2013. John Kerry ringraziò ufficialmente il governo di Damasco, riammettendolo di fatto nella comunità internazionale. Da allora l’amministrazione americana ha del tutto abbandonato l’idea di un cambio di regime, puntando semmai al miracolo diplomatico, anch’esso però difficile. Perché la dignità, la “karama”, come dicevo prima, non è una variabile minoritaria. La maggior parte dei siriani, pragmaticamente, sarebbe anche disposta ad un accordo con il regime, senza purghe, ma con qualche ragione non vuole più vedere Assad alla presidenza della Siria e non è disposta ad accettare che tutto finisca come se nulla fosse successo in questi 5 anni: oltre 250.000 morti e la metà della popolazione sfollata, intere città distrutte dall’aviazione di Assad.
Però gli USA hanno permesso che altri stati, come l’Arabia Saudita o la Turchia, foraggiassero forze pericolose come Al-Nusra o se vogliamo lo stesso ISIS in funzione anti-Asad.
Sì questo è stato l’errore principale. Permettere ai regimi più illiberali della regione di scippare ai siriani la rivoluzione e finanziare l’espansione di attori islamisti più in linea con il mantenimento dei loro interessi interni. Molti sono giunti dall’esterno infatti ed erano già pronti ad entrare in scena dall’Iraq. Questa è la politica di Arabia Saudita e altri paesi del Golfo da ben prima del 2011: finanziare gruppi jihadisti in chiave anti-iraniana o in chiave anti-democratica comunque, nella paura che la richiesta di libertà esploda anche in patria. Così hanno inviato o richiamato combattenti sunniti per combattere gli alawiti o gli sciiti, e di fatto trasformando il senso stesso della lotta. Questa dinamica ha fagocitato la rivoluzione iniziale che, però, come vediamo oggi nelle piazze siriane, ha resistito sia ad Assad sia agli islamisti sia ai vari nemici dei siriani, presenti sia in Occidente che in Oriente.
Quindi torniamo a capo con il problema di fondo: la necessità di ricreare il tessuto economico-sociale del Medio Oriente e del mondo arabo in generale. Per fare un esempio, Massimo Cacciari parla del fenomeno di “proletarizzazione dell’Islam”.
L’Islam, oltre ad essere una religione praticata in modo spesso pacifico, rappresenta anche e certamente un rifugio per una fetta di delusi della società globale, non solo i poveri direi. Da questa prospettiva è una forma modernissima del vivere la religione. Dietro i vari richiami al ritorno alle origini dell’Islam c’è in realtà una fortissima reinterpretazione dell’Islam che proprio per questo attrae così tanti adepti anche dall’estero. C’è un malessere generalizzato che richiama misticismo e spesso purtroppo sfocia nella violenza fine a se stessa.
E l’aspetto economico?
Lo stato dell’economia è un problema per il cambiamento, soprattutto democratico. Come ha scritto recentemente Timothy Mitchell in “Carbon Democracy”, la democrazia come regime politico nasce soprattutto da una situazione in cui la produzione della ricchezza e dell’energia che a sua volta serve per produrre ricchezza è controllata, e può dunque essere bloccata, da una pluralità di attori diversi dai proprietari. Solo così si crea un sano bilanciamento tra poteri diversi. Per questo le società industrializzate si sono democratizzate. Al mondo arabo, al contrario, è mancata l’industrializzazione e questo ha facilitato la creazione di élite economiche e colluse con il potere politico, la cui ricchezza era indipendente da una mobilitazione di capitale umano e salariato. L’industrializzazione è stata in gran parte bloccata e ostacolata dalla priorità che ha avuto l’estrazione del petrolio, la cui estrazione notoriamente non mobilita un ampio capitale umano. Ma è stata anche boicottata dall’Occidente stesso, perché costituiva un movente politico, soprattutto ai tempi di Nasser negli anni 60, per emancipare il mondo arabo dalla dipendenza delle importazioni di prodotti finiti dall’Europa.
A quanto pare la situazione in M.O. si sta ulteriormente complicando perché l’Arabia Saudita sta cercando di destabilizzare il Libano. E questo ci riporta al conflitto chiave nell’area: quello tra la monarchia saudita e l’Iran.
Sì, l’Arabia Saudita è ossessionata dall’espansione dell’Iran e cerca di destabilizzare tutti i paesi e tutti gli attori dove l’Iran esercita una certa influenza. Ora tocca al Libano perché il partito sciita Hezbollah, notoriamente vicino all’Iran, è diventato molto forte.
A proposito dell’Iraq lei ha poi fatto notare l’errore, dopo l’eliminazione di Saddam Hussein, di umiliare la classe militare e professionale del regime.
Le purghe non sono mai foriere di equilibrio sociale. La marginalizzazione dell’ex regime di Saddam ha innescato una vendetta, che si è manifestata con un ritorno degli ex-baathisti attraverso al-Qaeda in Iran e infine l’ISIS.
Qual è il futuro dell’ISIS? Dovremo abituarci all’idea di un Califfato?
Difficile prevederlo ma tutto dipenderà da quanto si riuscirà a ricostituire autorità legittime, sostenute da forze militari coese, che possano sconfiggere le forze del Califfato. Nel lungo periodo, comunque, poiché tutti prima o poi si stancano di combattere, sono possibili due scenari. Primo, che lo Stato Islamico, sempre più sfiancato militarmente, imploda e che l’ideologia che ha attratto tanti jihadisti dal mondo si stemperi per l’incapacità del sedicente Stato Islamico di farsi “stato”, territorialmente coeso e con un controllo interno capillare. Oggi anche all’interno di quello che si definisce come il territorio dell’ISIS siamo ben lontani da una realtà di tipo “statuale”.
E il secondo scenario?
Prevedrebbe che pian piano si cristallizzasse l’autorità del Califfato in una zona cuscinetto tra Siria e Iraq, un po’ come s’impose, espanse e consolidò il potere dei Saud nell’attuale Arabia Saudita all’inizio del secolo scorso. Ma questo secondo scenario mette alla prova la capacità dell’ISIS di adattarsi politicamente all’ordine internazionale esistente. Dal punto di vista economico è già ben adattato.
Ovvero?
Mentre l’ISIS contesta l’ordine politico ed economico internazionale, in realtà dipende moltissimo da esso – dalla produzione di armi, innanzitutto, per lo più occidentale, che è stata complice nella crescita ed espansione dell’ISIS. Il commercio illegale di armi comunque dipende da una serie di pericolose “liaisons” con i circoli del business legale. L’ISIS poi vende petrolio che è fondamentale per le sue rendite e dunque per la sua sopravvivenza. Questi scambi commerciali illegali, sia chiaro, sono stati possibili perché l’ISIS era utile, e forse lo è ancora. Nel lungo periodo è insostenibile l’idea di una sorta di mafia territoriale e non istituzionalizzata inserita in un sistema di stati sovrani, per quanto fragile, senza una normalizzazione delle relazioni diplomatiche. Questo perché nel lungo periodo, se l’ISIS non fosse più utile a chi lo sostiene, sarebbe facile sbaragliarlo interrompendo il commercio illegale che oggi tiene in vita l’organizzazione. Nessuna entità può farsi “stato” senza forza militare e senza un’economia formale routinizzata. L’ISIS non ha industrie di armamenti, né di altri beni. Sa questo punto di vista è già una cosiddetta “economia della rendita”, estremamente dipendente dalle esportazioni, seppur illegali, di petrolio.
Ma l’ISIS potrebbe sovvertire l’ordine esistente, come dice?
Gli ordini internazionali del passato sono stati imposti non con la propaganda virtuale, ma con risorse materiali, politiche, economiche che hanno a sua volta prodotto la legittimità del sistema. La propaganda è l’unico mezzo forte dell’ISIS, con cui il Califfato – sfruttando i mezzi insidiosi della post-modernità, twitter, facebook, internet in generale – ha costruito una proiezione di sé e della sua forza che, però, non si rispecchia nella realtà. Tant’è vero che molti combattenti disertano dopo aver viaggiato nel Califfato, perché restano delusi da ciò che vedono e perché si ritrovano a vivere una vita ancora più miserabile di quella che vivevano prima e da cui sono fuggiti. Ma anche nel mondo dominato da internet e dalla comunicazione in cui viviamo oggi, per poter sovvertire e imporre un ordine politico, internazionale o almeno regionale, del tutto diverso da quello esistente, la realtà impone una resa dei conti: ci vogliono mezzi militari, economici, tecnologici che l’ISIS non ha. Per il momento il Califfato sfrutta il vuoto di legittimità politica diffuso in Iraq, in Siria e in Libia. Grazie ai bombardamenti sauditi sullo Yemen, che stanno provocando uno scempio umanitario, l’ISIS si sta espandendo anche nel sud dello Yemen, soprattutto ad Aden. Tutto ciò può perpetuare l’instabilità attuale. Se l’instabilità di un’area può essere comoda nel breve periodo, però, non è conveniente per nessuno nel lungo periodo. All’orizzonte, dunque, o l’ISIS non ci sarà più o diventerà l’ennesima mediocre autocrazia petrolifera mediorientale e a quel punto, vedrà, non farà più paura a nessuno.