La delicata situazione che sta vivendo in questi giorni il Venezuela, unita al passaggio di potere dai governi progressisti a quelli liberisti in alcuni importanti Paesi come il Brasile e l’Argentina, ha fatto pensare a molti che l’epoca del progressismo in America Latina stesse volgendo al termine. I cantori del capitale, sia latinoamericani che occidentali, si sono immediatamente affrettati a parlare di post-progressismo, ma ad un’analisi più attenta si può capire facilmente che i movimenti della sinistra progressista hanno ancora qualcosa da dire in quel continente.
In quest’articolo proveremo a compiere un excursus tra i principali paesi dell’America Latina, esponendo brevemente per ciascuno di essi quella che è la situazione politica attuale. Ciò che li accomuna, sono gli importanti risultati ottenuti dai governi progressisti negli ultimi anni in termini di diminuzione della povertà e della diseguaglianza, pur senza essere esenti da alcuni errori. Le critiche sono infatti sempre necessarie per avanzare e migliorare, ma è innegabile che la portata dei successi dei governi progressisti dall’America Latina sia decisamente superiore rispetto a quella dei fallimenti.
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VENEZUELA: LA RIVOLTA DEI RICCHI
Partiamo dal Venezuela, sul quale proveremo a non dilungarci troppo, sia perché ne abbiamo già parlato in precedenti articoli, sia perché è uno delle tematiche più trattate e note degli ultimi tempi. In un’economia basata prevalentemente sul petrolio come quella venezuelana, l’abbassamento del prezzo del greggio è stato il fattore scatenante di una grave crisi economica. La situazione, però, non può essere spiegata unicamente da questo fattore: in Venezuela è infatti in corso un vero attentato alla rivoluzione bolivariana, orchestrato dalla borghesia locale e dal suo ingombrante alleato, gli Stati Uniti.
Il boicottaggio della rivoluzione bolivariana sta avvenendo per mezzo di una guerra economica, che va ben oltre le sanzioni proclamate ufficialmente. Il Paese è stato vittima di un contrabbando riguardante i prodotti calmierati (ovvero a prezzo controllato), beni primari, soprattutto alimentari, esportati illegalmente dal Paese e dunque tolti dal consumo interno, causando artificialmente una grave carestia. In questo caso, il governo ha saputo rispondere eliminando il controllo dei prezzi, ma prevedendo dei sovvenzionamenti alle persone più povere per l’acquisto di quegli stessi beni.
Non va poi dimenticato che, con le sue multinazionali, la borghesia venezuelana è in grado di controllare la maggioranza delle esportazioni sia in alimenti che in medicinali. Anche in questo caso, la diminuzione del flusso d’importazione e l’innalzamento artificiale dei prezzi, con conseguente inflazione galoppante, ha sottratto molti beni di prima necessità alle fasce più deboli della popolazione, al fine di incolpare il governo della grave crisi. Il presidente Nicolás Maduro ha risposto proprio in questi giorni aumentando del 50% l’importo minimo di stipendi e pensioni.
L’attacco frontale al Venezuela va letto in maniera più ampia: il Paese della rivoluzione bolivariana ha infatti rappresentato in questi anni un punto di riferimento per tutti gli altri Paesi progressisti dell’America Latina, e, dopo diciotto anni di “chavismo”, è diventato un rivale troppo ingombrante in un continente che gli Stati Uniti non hanno mai rinunciato a considerare il proprio “giardino di casa”. I governi bolivariani non sono riusciti a diminuire la dipendenza economica del petrolio ed hanno commesso l’errore di non sbarazzarsi della grande borghesia locale, ma hanno raggiunto risultati invidiabili nella riduzione della povertà, utilizzando il 74.4% del bilancio nazionale in investimenti sociali.
BOLIVIA: EVO MORALES SEMPRE PIÙ POPOLARE
Se c’è un Paese dove il progressismo gode di ottima salute, quello è la Bolivia. Si tratta tuttavia di un Paese che ha rappresentato a lungo un paradosso: pur essendo lo stato del continente con la maggior percentuale di popolazione indigena, la Bolivia aveva sempre avuto presidenti della minoranza caucasica, fino all’elezione di Evo Morales nel 2006. Divenuto presto il braccio destro di Hugo Chávez, Morales ha sempre goduto di una grande popolarità nel suo Paese, superando il 60% dei consensi alle elezioni presidenziali del 2009 e del 2014.
Il presidente boliviano ha ottenuto molte vittorie dalla sua ascesa al potere, riducendo la povertà nel Paese più povero del Sud America, l’unico privo di sbocco al mare insieme al Paraguay, e dichiarando guerra alle tante multinazionali che per decenni hanno fatto affari in Bolivia. Di recente Morales ha allontanato dal Paese la DEA (Drug Enforcement Administration), l’agenzia federale antidroga statunitense. I risultati sono stati impressionanti: in poco tempo, la superficie di terreni dedicati alla coltivazione della coca è diminuito del 35%, così come sono diminuiti i traffici e le esportazioni di cocaina.
Secondo tutti i sondaggi, Evo Morales sarebbe destinato ad una riconferma con un netto margine alle elezioni presidenziali del 2019.
ECUADOR: PASSAGGIO DI TESTIMONE A LENÍN MORENO
La Revolución Ciudadana lanciata da Rafael Correa nel 2007 prosegue il suo cammino in Ecuador. Nonostante i timori per la sempre difficile fase del passaggio di testimone, l’erede designato di Correa, Lenín Moreno, è stato eletto nello scorso mese di aprile alla presidenza del Paese.
La vittoria di Moreno conferma la popolarità dei successi ottenuti da Correa durante i suoi governi. Gli undici anni di presidenza di Correa si chiudono con un bilancio positivo dal punto di vista degli indicatori macroeconomici: sia gli indici di povertà che quelli di diseguaglianza hanno infatti registrato ottimi miglioramenti nell’arco dell’ultimo decennio. Secondo i dati della Banca Mondiale, durante i tre mandati di Correa la povertà in Ecuador è passata dal 36.7% al 22.5%, mentre la diseguaglianza misurata con l’indice di Gini è scesa dallo 0.55 allo 0.47.
LA QUESTIONE DEL CANALE DEL NICARAGUA
Una delle questioni più scottanti della politica latinoamericana è quella del Canale del Nicaragua. Diciamo innanzi tutto che il Paese con capitale Managua è governato dal movimento sandinista del presidente Daniel Ortega, certamente il più progressista dei governi dell’America centrale. Anche le ultime elezioni, tenutesi alla fine del 2016, hanno confermato l’appoggio popolare di cui gode Ortega. Il presidente tuttavia è molto inviso agli Stati Uniti, e questo a causa degli accordi che il Nicaragua ha stretto con Cina e Russia per la costruzione del famigerato canale.
Il progetto del Canale del Nicaragua, una nuova via di passaggio dall’Oceano Atlantico a quello Pacifico, va chiaramente a ledere gli interessi di Washington a causa della più che probabile concorrenza che questo farebbe al Canale di Panama, de facto controllato dagli Stati Uniti anche dopo la restituzione al governo panamense. Come se non bastasse, la costruzione del canale è stata affidata ad un consorzio cinese (in realtà di Hong Kong, l’HK Nicaragua Canal Development Investment Co.), e parallelamente il governo sandinista ha stretto un’importante alleanza militare con la Russia.
Mentre Washington continua a sbraitare che nessun canale alternativo a quello di Panama sarebbe necessario, ed a designare il governo nicaraguense come una dittatura alla ricerca di consensi, in Nicaragua come nei Paesi sopra esposti si sono registrati evidenti miglioramenti negli indicatori macroeconomici riguardanti povertà e diseguaglianza.
I PAESI PERSI DAL PROGRESSISMO
Nonostante quanto esposto in precedenza, dobbiamo effettivamente registrare la perdita di alcuni Paesi da parte del campo progressista in America Latina, perdite tuttavia che solo raramente si sono verificate attraverso regolari elezioni. Sottolineiamo, inoltre, come tutti i Paesi tornati nel campo del liberismo filoamericano facessero in realtà parte del campo del progressismo moderato, mentre quelli a progressismo più avanzato restano i quattro esposti in precedenza.
I Paesi dove i liberisti sono tornati al potere attraverso le elezioni sono sostanzialmente due: uno di grande importanza, come l’Argentina, finita, seppur di poco, nelle mani di Mauricio Macri, e l’altro di minor spessore, ovvero il Perù, che dall’ambiguo Ollanta Humala è passato al liberista dichiarato Pedro Pablo Kuczynski.
Decisamente rilevante è l’elenco dei colpi di stato orchestrati dalla borghesia locale con l’appoggio, più o meno dichiarato, di Washington, facendo tornare, per certi versi, l’America Latina ai tempi più bui della propria storia. Il primo golpe si registrò già nel 2009, quando il presidente dell’Honduras, Manuel Zelaya Rosales, fu deposto e costretto all’esilio non appena presentò la prospettiva di entrare nell’ALBA (Alianza bolivariana para América Latina y el Caribe), l’alleanza dei Paesi progressisti voluta da Chávez. La sostituzione di Zelaya con Roberto Micheletti Baín farà da scuola per il golpe messo a segno in Paraguay ai danni di Fernando Lugo nel 2012, ed infine per quello più importante di tutti, realizzato lo scorso anno ai danni di Dilma Rousseff per consegnare il Brasile, il Paese più grande dell’America Latina, nelle mani del burattino di Washington, Michel Temer: un fulgido esempio di corruzione che accusa Rousseff di corruzione.
Nonostante ciò, c’è pure chi, provato il liberismo per cinque anni, ha deciso di tornare ai governi di sinistra: si tratta del Cile che, dopo l’elezione di Sebastián Piñera nel 2009, ha riconsegnato il Paese nella mani della socialista Michelle Bachelet, in attesa delle nuove elezioni che avranno luogo in novembre. Non va inoltre dimenticato che sia Macri che Temer godono al momento di una scarsissima popolarità: gli argentini vedrebbero bene il ritorno al potere di Cristina Kirchner, mentre i brasiliani vorrebbero fare appello al vecchio presidente Ignacio Lula da Silva.
COLOMBIA: IL FEDELE ALLEATO DI WASHINGTON
Concludiamo infine con la Colombia, il Paese che, pure negli anni di maggior successo per i governi progressisti dell’America Latina, è sempre rimasto fedelmente nell’orbita di Washington. Prima con Álvaro Uribe e poi con Juan Manuel Santos, il governo di Bogotà ha sempre permesso agli Stati Uniti di fare i propri comodi in Colombia, installando il maggior numero di basi militari straniere in un Paese del continente, ben sette, utilizzando come scusa la presenza del narcotraffico e dei gruppi guerriglieri. Come sottolineato dal presidente boliviano Evo Morales dopo l’allontanamento della DEA dal suo Paese, proprio in Colombia, il Paese dove la DEA è maggiormente impegnata nella sua “lotta al narcotraffico”, si registrano i dati più preoccupanti circa la produzione e l’esportazione di cocaina ed altre sostanze stupefacenti.
Il ruolo della Colombia si è del resto rivelato di grande importanza strategica per Washigton negli ultimi anni, rappresentando una spina nel fianco dei governi progressisti del continente e soprattutto del vicino Venezuela: una tattica che sta dando i suoi frutti nel disturbare il cammino della rivoluzione bolivariana, ma che è lungi dal consegnare il continente nelle mani del liberismo “filoyanquista”.
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