Da anni ormai si parla dei danni non solo socio-economici, ma anche climatici causati dalla deforestazione in Amazzonia. La prima cosa da comprendere è che l’Amazzonia, con il suo immenso tesoro di foreste, è una specie di polmone del pianeta. Il dramma della foresta amazzonica si è aggravato ora con l’avvento al potere in Brasile di Bolsonaro che ha accelerato il processo di sfruttamento dell’area amazzonica, la quale si trova, in maggior parte, nel suo paese.
Discute di questo con YOUng Martina Borghi, esperta di foreste presso Greenpeace Italia.
L’INTERVISTA
Da tempo si dice che l’Amazzonia è uno dei polmoni del pianeta.
La foresta amazzonica è la più grande foresta pluviale tropicale intatta del mondo. La foresta amazzonica ospita il 10% di tutte le specie vegetali ed animali esistenti sulla Terra. E’ la casa di più di 24 milioni di persone, tra cui numerosi popoli indigeni – 180 gruppi diversi. Inoltre ha la capacità di immagazzinare una grande quantità di anidride carbonica, ed è quindi molto importante per il clima del pianeta.
A quanto pare in Amazzonia il processo di deforestazione si è accelerato negli ultimi tempi.
In realtà l’Amazzonia ha avuto il suo periodo peggiore nel 1995, e fino al 2000 le cose sono andate molto male, nel senso che il tasso di deforestazione era molto alto. Poi il momento di deforestazione più basso è subentrato nel 2012. Negli ultimi due mesi, il tasso di deforestazione, rispetto ai mesi di maggio e giugno del 2018 è aumentato.
Questo, immagino, sia dovuto alle politiche di Bolsonaro.
Sì, quando parliamo di foresta amazzonica parliamo soprattutto di Brasile, visto che due terzi di essa si trovano in questo paese. Quindi il Brasile è il paese con la maggiore responsabilità per la protezione di questo ecosistema. Nel 1995 abbiamo perso più di 29 milioni di chilometri quadrati di foresta. Il processo è purtroppo continuato, anche se diminuito. Ora abbiamo questo nuovo presidente, Bolsonaro, che ha vinto una campagna elettorale anche con un’agenda che non ha mai previsto la protezione dell’Amazzonia. E’ risaputo che il nuovo presidente, in carica da gennaio, gode del supporto di una lobby molto potente, ossia quella dei grandi produttori agricoli/latifondisti: infatti il Brasile è uno dei principali esportatori di prodotti agricoli, ed in particolare di carne bovina e di soia. E proprio la produzione agricola industriale, e in particolare la produzione di carne bovina e di soia, è stata la causa principale di deforestazione.
Come si collegano le promesse elettorali di Bolsonaro con questa nuova fase di sfruttamento?
Bolsonaro, come annunciato durante la campagna elettorale, ha penalizzato molto il sistema di protezione ambientale. Il Ministero dell’Agricoltura è diventato responsabile per le decisioni sulle rivendicazioni portate avanti dai popoli indigeni. Inoltre l’ente che è adibito a proteggere i popoli indigeni (FUNAI) è stato in gran parte smantellato. La nuova ministra dell’Agricoltura è da tempo vicino alla lobby dei latifondisti nota come “blocco rurale”.
Le conseguenze di tutto questo?
Le aggressioni ai danni dei Popoli Indigeni sono aumentate e, dopo un periodo di grandi piogge che hanno reso più difficile l’attività di deforestazione, a maggio e a giugno questa è aumentata considerevolmente rispetto allo stesso periodo nel 2018.
Ma oltre allo sfruttamento agricolo c’è anche quello minerario.
Sì, certo. Diciamo che l’idea di Bolsonaro è rendere profittevole lo sfruttamento dell’Amazzonia in ogni senso. In questa regione c’è anche sempre stato un problema molto forte di deforestazione illegale. Sono insomma progetti che vanno di pari passo, perché quando si vuole deforestare una certa area, che sia per motivi agricoli o minerari o per creare grandi infrastrutture (dighe, autostrade…), prima di tutto si tolgono gli alberi il cui legno ha più valore commerciale. Quindi si cominciano a costruire delle strade per arrivare nell’area dove si trovano questi alberi. Il resto poi può anche essere bruciato e si fa spazio all’attività economica che interessa. In Amazzonia si trovano metalli preziosi e minerali. L’industria mineraria ha impatti molto forti anche sulle falde acquifere, sulla salute dei fiumi e su intere comunità – spesso Popoli Indigeni e comunità tradizionali – che vengono obbligate a spostarsi e quindi obbligate ad abbandonare i territori che abitano da centinaia di anni.
Quindi bisogna considerare anche l’impatto sulle popolazioni indigene.
Sì. Il problema del riconoscimento delle terre ai Popoli Indigeni non è certo nuovo, ma sotto questo nuovo governo in particolare le popolazioni indigene stanno avendo ancora più difficoltà nell’ottenere un riconoscimento delle proprie terre ancestrali. Le loro richieste vengono ignorate perché è più profittevole vendere queste terre a delle grandi multinazionali. Inoltre, le aggressioni ai danni dei Popoli Indigeni, i guardiani della foresta amazzonica, sono aumentate. Le aggressioni avvengono nella foresta, ovvero in zone molto remote, dove è difficile che le autorità intervengano rendendo quindi molto difficile fare giustizia.
Ma gli altri paesi latinoamericani che posseggono anche loro parte dell’Amazzonia, come il Perù e la Colombia, hanno politiche più soft rispetto a quelle del Brasile?
Noi di Greenpeace non abbiamo uffici in quei paesi, e quindi non abbiamo un’analisi comparativa abbastanza accurata. Comunque è chiaro che in questo momento il governo Bolsonaro sta sferrando un attacco molto forte all’Amazzonia, ed avendo appunto il Brasile due terzi di questa regione queste politiche hanno una grande rilevanza anche in termini degli accordi sul cambiamento climatico raggiunti alla Conferenza di Parigi.
Siete presenti in altri paesi dell’America Latina?
Lavoriamo sull’Argentina che ospita gran parte della foresta del Gran Chaco: anche qui gli equilibri ambientali sono in pericolo.
In una sua recente relazione all’ONU, il giurista australiano Philip J. Alston ha parlato di “apartheid climatico”, riferendosi alle conseguenze socio-economiche del cambiamento climatico sui poveri della Terra, ed ha anche criticato, oltre Trump e Bolsonaro, le stesse Nazioni Unite per non fare abbastanza per contrastare questo fenomeno.
Noi di Greenpeace diciamo che un grave errore in rapporto con gli impatti sociali è proprio quello di escludere, man mano che la deforestazione avanza, i Popoli Indigeni e le comunità tradizionali dalla conservazione dell’Amazzonia. Ci sono diversi studi e rapporti a proposito, come quello realizzato da Rights and Resources Initiative in collaborazione con la Relatrice Speciale dell’Onu per i Popoli Indigeni, Victoria Tauli-Corpuz, che dimostrano come includere le popolazioni locali nella conservazione della foresta è fondamentale per ottenere eccellenti risultati di conservazione garantendo il rispetto dei diritti umani.
E l’impatto sul clima?
Le foreste hanno un enorme potenziale d’influsso positivo sulla conservazione del clima. Hanno una grande capacità d’immagazzinare carbonio, e quindi sono essenziali per la vita sul pianeta. Oltre ad ospitare una grande varietà di animali e piante, le foreste forniscono riparo ed un mezzo di sostentamento a centinaia di milioni di persone. Sono state proprio le Nazioni Unite e la FAO a dichiarare che le foreste catturano un terzo dell’anidride carbonica rilasciata ogni anno a causa della combustione di gas, petrolio e carbone. Quindi, per evitare che l’aumento della temperatura globale superi il grado e mezzo dobbiamo fermare la deforestazione, ripristinare le foreste che non sono ancora state gravemente compromesse e, dove possibile, riforestare.
Secondo te le Nazioni Unite stanno facendo abbastanza per contrapporsi alle politiche di deforestazione?
La verità è che le Nazioni Unite sono un organo molto importante, ma nel fermare il processo di deforestazione non sono quelle che possono veramente fare la differenza.
Chi allora può fare la differenza?
Le multinazionali e i governi dei vari paesi, ed in particolare dei paesi occidentali che hanno una grande responsabilità per quanto riguarda la deforestazione. Per esempio, dovremmo fermare questo processo attraverso una riforma radicale dell’industria agricola e del sistema alimentare, perché al momento l’80% della deforestazione è legata alla produzione industriale di materie prime agricole. Quindi da un lato le multinazionali devono ripulire le loro filiere dalla deforestazione e dalla violazione dei diritti umani. Dall’altro lato i governi nazionali e l’Unione Europea devono impegnarsi concretamente per proporre delle normative in grado di garantire che il cibo che mangiamo ed i prodotti che utilizziamo non vengano prodotti a scapito delle foreste e dei diritti umani. Quindi sono questi gli attori cruciali in questa battaglia. Le Nazioni Unite fanno da garanti, organizzano riunioni annuali sul clima (Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), creano momenti di scambio, mediazione e d’incontro, ma il gioco principale è nelle mani di governi, di organizzazioni internazionali politiche ed economiche a carattere sovranazionale (come l’Ue) e delle grandi aziende multinazionali.