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Il significato del summit tra Putin e Kim Jong-un a Vladivostock

Postato il Aprile 26, 2019 Attilio De Alberi 0

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A due mesi dal summit tra Trump e Kim Jong-un ad Hanoi, che come ricordiamo non era finito molto bene, il giovane leader nordcoreano ha ripreso il suo solito treno blindato e se n’è andato a Vladivostock per incontrare Vladimir Putin. Una cosa è certa: se pensiamo anche al viaggio a Pechino per incontrare il presidente cinese Xi Jinping, sembrerebbe che Kim Jong-un stia facendo tutti gli sforzi possibili immaginabili per far uscire il suo paese dall’isolamento internazionale. Naturalmente la questione principale rimane quella del programma nucleare nord coreano e delle relative sanzioni economiche imposte alla Corea del Nord proprio a causa di questo.

Comunque l’incontro tra Kim Jong-un e Putin pare essere andato molto meglio rispetto all’incontro di Hanoi con Trump, visto che si era giunti ad una vera e propria impasse sulla connessione tra il programma di denuclearizzazione e le sanzioni economiche. Da un lato il leader nordcoreano ha rafforzato la sua immagine a livello internazionale nel suo tentativo di superare lo stallo raggiunto nei colloqui con Trump. Naturalmente, anche Putin ci ha guadagnato, riuscendo nel suo lavoro di ripristino dello status di Mosca a livello mondiale.

Kim Jong ha preferito non presentarsi ai giornalisti, anche se ha fatto una dichiarazione.
“Spero che il nostro incontro con lei, signor Presidente,” ha detto rivolgendosi a Putin, “sia utile per rafforzare e sviluppare le relazioni tradizionalmente amichevoli della Corea del Nord con la Russia, che hanno radici profonde. La situazione nella penisola coreana è di grande interesse per l’intera comunità mondiale. Siamo qui per valutare questa situazione e per avere un proficuo scambio di opinioni”.

Putin invece si è messo a disposizione delle domande dei giornalisti e ha fatto subito notare che la condizione principale per risolvere la problematica legata alla penisola coreana sia ristabilire un clima di fiducia tra tutti gli attori coinvolti.

Più specificatamente, l’obiettivo di Putin sarebbe quello di ripristinare il format dei dialoghi a sei (Corea del Nord, Corea del Sud, Federazione Russa, Cina, Giappone e USA). Ha detto che questo ripristino “non è per ora necessario”, ma fonti coreane e giapponesi confermano che il ritorno della formula a sei è proprio quello che Putin si prefigge.

Interessanti le dichiarazioni, un po’ meno diplomatiche, fatte da Marya Zacharova, portavoce del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, in un’intervista radiofonica. La Zacharova ha detto che “in sintesi i colloqui tra il Presidente Putin e Kim Jong un possono essere visti come una correzione degli errori della diplomazia americana”. Secondo lei la crisi relativa alla Corea del Nord non è stata risolta a causa della mancanza di “persone oneste per risolvere questo problema”. Un riferimento chiaro agli ultimi due presidenti USA.

Al di là del sospetto che, indipendentemente dalle sanzioni, continuino ad esserci scambi commerciali proficui, anche se nascosti, tra Russia e Corea del Nord, Putin ha apertamente parlato della possibilità di attuare progetti infrastrutturali congiunti tra i due paesi. Specificatamente si è soffermato su un progetto di cui si parla da anni: una linea ferroviaria che collegherebbe la Corea del Sud con la Russia, passando inevitabilmente attraverso la parte settentrionale della penisola.

C’è poi un’altra questione in ballo: quella dei lavoratori nord coreani all’estero, costretti ora a ritornare in patria a causa delle sanzioni. Putin si è dichiarato assai soddisfatto delle migliaia di lavoratori nord coreani presenti nella Federazione Russa, anche se non si è soffermato sulla condizione di ipersfruttamento quasi schiavistico alle quali sono sottoposti.

In conclusione si può dire che la Russia, con questo summit, ha voluto dimostrare di possedere migliore abilità diplomatica nei confronti del giovane leader nord coreano rispetto all’amministrazione Trump, ed al tempo stesso ha rafforzato il proprio rapporto col paese, ultimamente legato soprattutto alla Cina.

D’altra parte non bisogna dimenticare quello che lo stesso Kim Jong un ha sottolineato: il rapporto storico tra i due paesi. Fu infatti l’Unione Sovietica ai tempi di Stalin il primo paese a riconoscere il regime comunista nato in Corea del Nord nel 1945, subito dopo la liberazione dagli invasori giapponesi che lo dominavano fin dagli anni ’30. E fu sempre l’URSS a dare il maggiore aiuto economico al paese negli anni successivi, visto che il “compagno” Mao era impegnato nella guerra civile.

Il rapporto tra Russia e Corea del Nord continuò ad essere positivo fino alla caduta dell’Unione Sovietica, anche se Nikita Krusciov, successore di Stalin, criticò il paese per le manifestazioni di “stalinismo e il culto della personalità di Kim Il Sung”. Notare però che quando cominciarono a guastarsi i rapporti tra URSS e Repubblica Popolare Cinese per il controllo del movimento comunista internazionale, Kim Il Sung assunse una posizione neutrale.

Con il regime di Yeltsin nato con il crollo dell’URSS i rapporti tra i due paesi s’indebolirono, ma con Putin sembra che si sia tornati gradualmente ai vecchi tempi, sia dal punto di vista politico che commerciale. Nel 2014 è stato firmato un accordo che ha cancellato tutti i debiti coreani con la Russia. In cambio la Corea del Nord ha riconosciuto la recente unificazione della Crimea con la Federazione Russa.

Autore

  • Attilio De Alberi
    Attilio De Alberi

    Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.

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#Kim Jong-Un#Putin#summit Putin Kim Jong-un#Vladivostock

Pubblicato da

Attilio De Alberi

Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.


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