Donald Trump ha deciso di lasciare anticipatamente il summit del G7 in Canada per volare a Singapore e finalmente incontrare quello che aveva definito non molto tempo fa “little rocket man”, ossia Kim Jong-un, il leader comunista della Corea del Nord. Anche se a un certo punto si pensava che il meeting non ci sarebbe stato, alla fin fine esso ha avuto luogo, circondato da un’attenzione mediatica piuttosto frenetica. Divertente ricordare che Kim Jong-un aveva detto che partecipare a questo incontro sarebbe stato come guardare un film fantascientifico.
I due leader si sono incontrati, si sono piaciuti e hanno avviato delle trattative finalizzate alla denuclearizzazione della penisola coreana. Ma la cosa più sorprendente è che, diversamente da altri incontri storici di questo genere, non c’è stato un sistematico lavoro previo, poi suggellato dalla classica stretta di mano e la stesura di firme tra due leader, ma la prassi è stata in qualche modo capovolta. In altre parole: prima i due leader si sono incontrati e poi si lavorerà – o almeno si spera – per raggiungere un accordo stabile e duraturo.
Quindi la vera domanda è se questo evento segnala l’avvio di un solido processo di pace, oppure è stato, più che altro, un’occasione mediatica e personalistica, della quale i due personaggi coinvolti, The Donald e Kim Jong-un, hanno approfittato per far sguazzare i loro ego notoriamente dilatati.
Discute di questo con YOUng Lorenzo Mariani, esperto di Corea e Cina presso lo IAI (Istituto di Affari Internazionali) a Roma. Mariani trova molto contraddittorio il fatto che Trump abbia elogiato il summit di Singapore con le sue finalità di denuclearizzazione della Corea del Nord, pur nella sua essenziale vaghezza, mentre ha ampiamente denigrato l’accordo sul nucleare con l’Iran, firmato da Obama, e frutto di un lungo ed approfondito lavoro collettivo internazionale di mediazione.
L’INTERVISTA:
Ci si chiede se l’incontro Trump-Kim sia stato un vero successo o un evento propagandistico-personalistico.
Sì, in realtà è stato proprio questo il merito della spinta diplomatica da parte di Kim Jong-un. Costui sapeva che Trump non avrebbe rifiutato d’incontrarlo – cosa mai fatta con un leader nordcoreano da parte di un presidente USA -e che avrebbe potuto sfruttare l’occasione come un successo politico in vista delle elezioni per il Congresso di novembre, visto che viene attaccato regolarmente per ogni decisione presa in politica estera.
Infatti il summit del G7 è stato, da un certo punto di vista, un mezzo fiasco.
E’ stato abbastanza strano che Trump si sia incontrato con i suoi principali alleati, rappresentanti delle principali democrazie occidentali, ed abbia avuto un confronto così acceso, per poi sedersi allo stesso tavolo col leader di un regime autoritario ed abbia lodato le sue azioni e l’amore per la sua patria. E’ un contrasto abbastanza forte che non ci si aspetterebbe da un presidente americano.
Si è osservato che di solito si fanno una serie di incontri tecnici per poi giungere ad un incontro finale che suggella gli accordi, mentre in questo caso è avvenuto il contrario.
Infatti noi alla IAI abbiamo descritto questo processo come una forma di “backward diplomacy”, una diplomazia all’incontrario, proprio perché il summit a Singapore non è avvenuto alla fine di un processo di trattative, ma è in realtà l’inizio di una fase di negoziazioni. E questo rappresenta un rischio.
Perché?
Appunto perché è stata più che altro una concessione fatta a Kim Jong-un, e quindi un fatto mediatico più che un atto volto a suggellare un accordo negoziale.
Il punto chiave rimane la denuclearizzazione, che Trump sembra volere subito, mentre Kim Jong-un pensa a tempi più lunghi.
Una denuclearizzazione immediata è difficile da immaginare. Si tratta di un processo che non può concludersi in pochi mesi e nemmeno in pochi anni. Secondo un recente studio si è calcolato che un effettivo smantellamento della capacità nucleare nordcoreana richiederebbe almeno 10 anni.
Quindi cosa ci si può aspettare nel breve termine?
Al massimo, nel primo anno, si può prevedere semplicemente un blocco del programma nucleare.
Rimane comunque la divisione della Corea in due parti, anche se s’ipotizzava un’unificazione della penisola, con dietro il desiderio di Trump di estendere l’influenza USA al nord.
E’ un po’ difficile pensare ad una Corea del Nord alleata degli USA. L’intera impalcatura propagandistica nordcoreana è basata sul contrasto all’imperialismo ed al sistema economico statunitense.
Però si parla della possibilità che nella Corea del Nord arrivino i McDonald e che lo stesso Trump possa avere mire a livello di suo business personale.
Beh, questo fa parte della diplomazia di Trump: dopo tutto è un uomo d’affari che si siede a un tavolo guardando soprattutto al profitto personale che può trarre da un negoziato. Ma, ripeto, è un po’ difficile pensare ad una Corea del Nord interessata ad un sviluppo economico coadiuvato dagli USA. Kim Jong-un, parallelamente al programma nucleare è molto interessato allo sviluppo economico del suo paese, ma nella sua visione dev’essere un processo controllato a livello verticistico dal partito.
Nel processo di rappacificazione in corso ci sono tre altri attori importanti: Cina, Corea del Sud e Giappone. Cominciamo ad analizzare la posizione cinese.
La Cina in questo momento si è tenuta da parte, preferendo giocare dietro le quinte, pur segnalando le sue priorità, come principale alleato della Corea del Nord. Più avanti possiamo aspettarci un incontro al vertice tra Xi Jinping e Kim Jong-un.
Intanto il nuovo Segretario di Stato Mike Pompeo è volato a Pechino subito dopo l’incontro Trump-Kim.
Questo è uno dei primi passi nello sviluppo delle trattative, e conferma il ruolo della Cina come attore chiave. Come si poteva prevedere, Pechino è riuscita a rimanere fuori dal gioco, ma solo per un breve periodo di tempo.
Ed il leader sudcoreano Moon Jae-in, che dice di aver passato una notte insonne prima dell’incontro Trump-Kim, potrà ora fare sonni tranquilli?
Fino ad un certo punto, perché Trump rimane una delle incognite in questa svolta diplomatica, a causa della sua imprevedibilità. Moon Jae-in si trova comunque di fronte a un buon risultato: dopo tutto è stato lui a fare da mediatore tra le due parti. Probabilmente il fatto che gli USA vogliano lasciare più spazio a Seul e a Tokio nelle trattative gioca a favore di Moon Jae-in perché è molto più preparato a dialogare con Pyongyang ed ha una strategia ben precisa.
Esiste la possibilità che le truppe americane lascino la Corea del Sud?
E’ un po’ difficile prevedere una sostanziale fine della presenza USA Corea del Sud. Comunque durante il summit almeno Trump ha parlato di voler porre fine alle esercitazioni militari congiunte con Seul, anche se poi è stato in parte smentito dal comando delle forze americane a Guam, che non ha ricevuto alcuna richiesta formale da parte della Casa Bianca. Questo fa un po’ parte della narrativa di Trump: tagliamo la nostra presenza all’estero, anche per risparmiare sulle spese militari, e facciamo piuttosto intervenire i nostri alleati.
E come si pone in questo scenario il primo ministro giapponese Abe?
Abe è forse quello più preoccupato di tutti. Il Giappone non è stato finora mai interpellato ed ha riposto la sua fiducia negli Stati Uniti lasciando a loro il compito di soddisfare le proprie istanze. Ma, di nuovo, Trump è abbastanza imprevedibile e non è detto che potrebbe essere il migliore ambasciatore per gli interessi di Tokyo.
A questo punto del processo cos’è che potrebbe andare sbagliato?
Potrebbe andare sbagliato tutto. Basta fare un paragone con quella che è stata la dichiarazione congiunta a cui sono arrivati Moon Jae-in e Kim Jong-un nel loro incontro del 27 aprile. Al di là di una certa vaghezza, Moon Jae-in si è assicurato l’impegno di creare vari tavoli negoziali tra le due Coree: uno di discussione economica, uno di discussione militare, uno di discussione civile ed uno di discussione politica.
Perché questo è importante?
Perché una volta creati questi tavoli di discussione si crea anche il tavolo dove andare a dirimere eventuali incidenti nati da diverse interpretazioni delle due parti. Ciò serve come base per dettare le regole del gioco. Questo manca dalla dichiarazione congiunta tra USA e Corea del Nord e quindi ci si chiede come si potranno risolvere eventuali divergenze interpretative tra le due parti.
Comunque indipendentemente da Trump, le due Coree andranno avanti per la loro strada di rappacificazione.
Sì, e infatti questo potrebbe giocare a favore di Moon Jae-in, proprio perché forse finalmente Seul riesce ad essere più indipendente nel suo ingaggio con Pyonyang. Il problema è che gli USA rimangono un autore rilevantissimo nella discussione in corso, nonostante la strategia e l’impegno di Moon Jae-in. E quindi se domani Trump dovesse cambiare idea c’è poco che la Corea del Sud potrà fare. Alla fin fine, la Corea del Nord vuole delle garanzie per la salvaguardia del proprio regime ed in questo il ruolo americano rimane cruciale.
Come altre volte, per chi vuole godersi un po’ di satira, ecco il link alla puntata di The Daily Show sul tema: