È il 26 ottobre del 2012. Quattro figure si distinguono, per così dire, dalla massa che transita a Montecitorio, e proclamano in favore di telecamere (qui il video) la loro immensa gioia per la recente condanna di Silvio Berlusconi, ex presidente del consiglio, ormai destinato a non essere più l’asse portante dell’intera politica italiana.
L’enorme coltre di imbarazzo che pervade la scena può essere scalfita solo dalla tracotanza fuori luogo di uno dei quattro: si tratta di Gianfranco Mascia, personaggio eternamente in cerca d’autore, che annuncia al mondo la lieta novella. “Berlusconi è stato condannato a 4 anni, e noi siamo felici, scusateci”, garrisce Mascia con malcelato e malriuscito sarcasmo, mentre accanto a lui un affannato ragazzone prova a prendere la parola, senza riuscire a toglierla al profeta in piena trance agonistica. Con loro anche una signora piuttosto accesa, ma decisamente poco fotogenica, e una ventenne evidentemente a disagio: portano un cartello con la faccia di Berlusconi e la scritta, davvero poco divertente: “la prima volta non si scorda mai”.
Intorno, le telecamere di second’ordine di qualche agenzia riprendono la scena mentre tutto, il cielo, l’aria, la luce, il suono, trasuda imbarazzo. Quello stesso imbarazzo che circonda i profeti di sventura in tempo di benessere, con la differenza sostanziale che non c’è nessun profeta, la sventura è quella di un tizio le cui sorti sono sempre meno importanti per il resto del mondo, e il tempo non è di benessere: è una tragedia.
Lo avrebbero scoperto appena 18 giorni dopo gli studenti e le studentesse, vigliaccamente massacrat* dalla polizia nel 14 novembre rimasto alla storia come il primo massacro di piazza del regno di Mario Monti da Varese. Lo avrebbero scoperto, in seguito, esodati, precarie, centri sociali, il mondo della cultura e della scuola e le persone perpetuamente rinchiuse nei centri di identificazione ed espulsione per un reato inesistente e mai commesso, tutte le vittime di questi avvilenti 4 anni dell’era post-Berlusconi.
A suo tempo, l’immagine dei quattro presunti eroi di Montecitorio mi aveva colpito per l’evidente sensazione di straniamento provocata dalla loro totale solitudine: una condizione dovuta all’evidente totale disinteresse di chiunque per una storia ormai sgonfia, bollita, inerte. Alla gioia popolare per la caduta di Berlusconi – che sembrava, ed effettivamente è stata, definitiva – si era ormai sostituita l’amara sensazione di essere stati traditi, con l’installazione di un governo gelido, robotico, borghese nell’accezione più negativa possibile, e nemmeno, come tanti speravano, lontano dalla corruzione e dalla disonestà che aveva permeato la politica fino ad allora.
Il governo di Monti si dichiarava europeista in un momento nel quale l’Unione Europea non era già più l’ancora di salvezza degli italiani “bene”, soprattutto di sinistra, e mostrava il suo feroce lato ultra-liberista in Grecia così come in Italia. “Ce lo chiede l’Europa” era sempre meno il mantra con il quale bacchettare Berlusconi, e sempre più una frase detta con crescente disgusto.
Da quel 26 ottobre del 2012 sono passati quasi tre anni che sembrano un secolo. Le elezioni 2013 hanno coperto il ventennio precedente con il frastuono del Movimento 5 Stelle, i titoli di coda di Forza Italia, la grottesca fanfara che ha accompagnato l’ascesa di Matteo Renzi e del potere quasi incontrastato di un Partito Democratico incapace di trovare una sua ragion d’essere che non sia il suo storico arcinemico.
E oggi fa quasi sorridere ritrovare lo stesso clamore che ha accompagnato la cacciata di Berlusconi nelle folle mobilitate pro e contro Ignazio Marino. Allora, fino al 2012, gli argomenti erano i legami con la mafia, la corruzione di un giudice, il mantenimento di un sistema di prostituzione che avrebbe coinvolto anche minorenni, senza dimenticare le innumerevoli idiozie, le sparate omofobe, sessiste e antidemocratiche e le brutte figure internazionali che hanno costellato la carriera dell’ex Presidente del Consiglio al ritmo di una a settimana. Nonostante tutto questo, ci sono voluti 18 anni e l’ennesimo “ribaltone” per disattivare una volta per tutte il potete macchinario berlusconiano.
Basta invece un sospetto su cene e vini pagati con i soldi del Comune a collocare Ignazio Marino sul proverbiale asino diretto fuori città. Non è mia intenzione adesso esprimere un giudizio sull’operato di Marino e sull’opportunità o meno delle sue dimissioni – per due opinioni interessanti, segnalo Germano Milite qui su Young e Sandro Medici sul Manifesto – ma mi limiterò a osservare il contesto. Apparentemente, a Marino non si perdona qualcosa come, se non sbaglio, una cena da 300 euro e una bottiglia di vino da 50 euro, e l’essersi “imbucato” (in realtà non era proprio così) negli Stati Uniti durante la visita di Papa Francesco. Se le cose stessero davvero così, dovremmo forse essere entusiasti di un senso civico che in così poco tempo sembra superare in virtù la tanto decantata attenzione inflessibile che “negli altri Paesi” sembra contraddistinguere i cittadini nei confronti dei politici. In realtà è evidente a tutti che la questione Marino è molto più di questo, così come la poltrona del sindaco di Roma è molto più che un ufficio amministrativo, e intorno a questa ambita carica scalpitano le destre sempre più fasciste di Roma, il Movimento 5 Stelle, il centrosinistra (ammesso che esista ancora), e in mezzo a questo colorato peloton, mafie, affaristi e arrivisti vari.
Uno scenario avvilente che ci riporta a quel dicembre 2011 quando Berlusconi si dimise. Pochi – nemmeno Grillo! – avevano visto l’ombra delle iene affacciarsi sulla fine del regno del perfido Scar-Berlusconi. E oggi che le iene spuntano da ogni parte, rivedere quella triste scena di Piazza Montecitorio non può che portare con sé una sensazione di disagio: il disagio dei quattro ineffabili benpensanti che bevono da soli il loro spumante, il disagio dei passanti che hanno ben altre cose a cui pensare, il disagio di tutti e tutte noi per aver offerto anni della nostra indignazione sperando in un futuro migliore, per ritrovarci invece al punto di partenza. Con una classe politica in cerca disperata di una legittimazione che non viva di fiammate, e un patto costituzionale ormai esangue in tutti i suoi aspetti, dai diritti democratici a quelli sociali ed economici. Senza neanche un grand guignol che con le sue trovate pecorecce ci faccia sentire migliori.