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Il circolo vizioso della questione palestinese

Postato il Ottobre 7, 2016 Attilio De Alberi 0

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Al di là di tutte le belle parole spese per celebrare il supposto pacifismo di Peres, la questione palestinese è lungi dall’evolversi positivamente.

La recente morte di Shimon Peres, uno dei fondatori dello stato d’Israele, leader laburista ed ex presidente, è stata celebrata in un rituale che ha visto la presenza di diversi capi di stato provenienti da tutto il mondo, tra i quali il presidente USA Barack Obama.

Quest’ultimo ha preso l’occasione per criticare indirettamente l’attitudine aggressiva dell’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu, leader del partito di destra Likud, per ciò che riguarda la situazione palestinese, pur avendo, per inciso, concluso recentemente un accordo per una fornitura militare di 38 miliardi di dollari con Israele.

E nel frattempo i candidati presidenziali hanno fatto a gara per accattivarsi Israele: Hillary Clinton crede che la comunità internazionale non debba più intromettersi negli affari d’Israele, mentre Donald Trump si è spinto a promettere che farà di tutto affinché Gerusalemme divenga la capitale ufficiale, nonostante la forte resistenza palestinese.

In ogni caso la morte di Peres ha scatenato un dibattito sulla sua figura di uomo di stato, per certi versi visto come una colomba, per altri come un falco. Le risposte sono inevitabilmente legate alle diverse visioni dell’annosa questione palestinese intrinsecamente legata  alle politiche dello stato d’Israele.

Parla di tutto questo a Young Mark LeVine, ricercatore ebreo-americano presso la University of California a Irvine, e, tra l’altro, co-autore del libro One Land Two States – Israel and Palestine as Parallel States, in cui si propone una soluzione alternativa alla questione palestinese, con due stati paralleli nell’ambito di un’unica entità territoriale. “In realtà, come può Peres, essere considerato un uomo di pace?” si domanda.

Qual è la sua percezione di Shimon Peres: falco o colomba?

Credo che questi termini, falco o colomba, siano molto relativi e vengano usati strategicamente dall’establishment israeliano.

Quindi la linea di divisione tra i due termini è molto sottile?

Sì, nel senso che c’è sempre stata una cosiddetta sinistra più interessata alla sicurezza e una destra ideologica più propensa all’espansione territoriale, però, ironicamente, la maggior parte delle pietre miliari nella politica degli insediamenti sono state poste dalla corrente socialista, laburista nell’ambito del sionismo.

Lo stesso vale per la politica economica?

Sì, il partito laburista si è mosso sempre di più su posizioni neo-liberaliste sulla scia del partito laburista inglese sotto Tony Blair.

Quindi quale rimane la principale distinzione tra la sinistra e la destra in Israele oggi?

La destra ha una visione religiosa dello stato e della politica estera, in particolar modo per ciò che riguarda gli insediamenti, mentre la sinistra del Labour rimane secolare.

Ma come si pone Peres in questo scenario?

Fondamentalmente Peres era un falco. Non dimentichiamo che, tra le altre cose, è il padre del programma nucleare. Addirittura ci sono documenti che provano come cercasse addirittura di vendere armi nucleari al Sud Africa sotto l’apartheid. Per non parlare dell’attacco in Libano nel 1996 che lo qualifica come un criminale di guerra.

A quanto pare, insieme a Rabin, fu anche responsabile di una serie di ritardi nell’implementazione degli accordi di Oslo…

Bisogna prima capire da dove nasce l’accordo di Oslo. Con la guerra del Golfo nel 1990-91, il PLO di Arafat si era indebolito e Israele credette di poter trovare un compromesso con i leader locali sul problema dell’occupazione della Cisgiordania.

Ma poi non ha funzionato…

Sì, infatti i politici locali che comunque dovevano accontentare la popolazione finirono per offrire una resistenza.

E quindi il ruolo di Peres?

Anche se lui e il partito laburista mostravano meno desiderio di espandersi rispetto al Likud, tuttavia insistevano perché venisse fondamentalmente accettata l’occupazione e i relativi insediamenti.

E fare invece delle vere concessioni per la creazione di uno stato palestinese?

Sarebbe costato troppo, a livello di supporto domestico. Quindi alla fin fine Peres non è mai stato capace di fare delle concessioni in questo senso.

Intanto Abu Mazen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, si è presentato al funerale di Peres…

Beh, è un segnale di quanto corrotti e co-optati siano ormai i leader palestinesi, che in realtà sopravvivono solo grazie all’establishment israeliano, all’Europa e agli USA: classico atteggiamento dei leader colonizzati.

E invece la popolazione?

La popolazione è in realtà disgustata con la situazione e certamente non ricorda Peres come uomo di pace.

Hamas sta acquistando un qualche supporto in Cisgiordania in opposizione all’Autorità Palestinese?

Forse, ma non bisogna dimenticare che a Gaza, dove comanda, è odiato.

Perché?

Perché finora è stato un disastro: corrotto, brutale, dedito alla tortura. Gli abitanti di Gaza dicono di essere sotto l’occupazione di 4 elementi: Hamas, Israele, l’Autorità Palestinese e l’UNRWA (ndr: l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

E DAESH sta guadagnando supporto?

Un poco, proprio a Gaza. Comunque si può dire che nel complesso i palestinesi rimangono piuttosto divisi, a eccezione dei movimenti di resistenza civica in Cisgiordania. In generale c’è molta debolezza.

Quindi si può parlare, in generale, di uno stallo?

L’idea di uno stallo presume una situazione in movimento, ma in realtà Israele, pur continuando a parlare di un processo di pacificazione rimane ferma nel suo controllo della Cisgiordania. Sono 50 anni che la controllano, e pensano di poterlo fare per altri 50 anni. E senza avere alcuna responsabilità della vita dei Palestinesi, che si indeboliscono sempre di più. Pensano di tenere la botte piena avendo la moglie ubriaca.

DAESH non ha lanciato nessun attacco contro Israele: non è strano?

Beh, innanzitutto la guerra di DAESH è contro i governi dove mantiene un controllo territoriale, e poi anche se sta riscuotendo qualche simpatia a Gaza, c’è già Hamas che si dichiara un movimento islamico radicale. Al massimo qui DAESH sta cercando di portare la lotta a un livello superiore di violenza, con implicazioni religiose. Infine nella misura in cui i palestinesi aspirano a una liberazione nazionale, DAESH non ha un senso, perché è contrario a qualsiasi forma di individualismo nazionale.

Ma se non un attacco militare ci si potrebbe aspettare almeno un attacco terroristico.

Per cominciare, Israele sa difendere bene i propri confini. Potrebbero esserci delle infiltrazioni attraverso la Giordania, ma qui il regime, che sopravvive grazie all’appoggio di Israele e degli USA, mantiene una ferma vigilanza. Nel sud del Libano c’è una maggioranza Sciita e quindi non può affermarsi. In Siria a quanto pare Israele lavora con DAESH in funzione anti-Assad, vedendolo come un rappresentante del suo più grande nemico: l’Iran. A sud il regime militare di al-Sisi ha chiuso il confine con Gaza.

Ma DAESH potrebbe attaccare degli obiettivi ebrei in giro per il mondo.

Sì, se fossi DAESH farei proprio questo, anche se Israele se ne avvantaggerebbe, invitando nuovi ebrei a venire “a casa”.

Si dice che DAESH sia riuscito a vendere il proprio petrolio non solo attraverso la Turchia, ma anche attraverso intermediari israeliani.

La cosa non mi sorprende affatto.

Rimane poi la forte alleanza tra Israele e l’Arabia Saudita.

Quella va avanti da molto tempo, più o meno segretamente.

Obama si è dimostrato critico nei confronti di Netanyahu in occasione del funerale di Peres, ma nei fatti continua il suo appoggio a Israele, a cominciare dalla pesante fornitura di armi.

Obama può parlare fin che vuole, ma la sostanza dell’appoggio rimane. E’ come urlare a tuo figlio e poi dargli la chiave dell’auto. Ma ricordiamoci che in realtà questo non ha nulla a che fare con Israele.

In che senso?

É un modo per sussidiare l’industria bellica americana. Obama compra armi da questa industria per darla a Israele. Neanche un dollaro lascia gli USA.

Ma questo non vale solo per Israele, nel quadro medio-orientale…

Certo. Infatti si è innescato un circolo vizioso per cui se si vendono armi all’Egitto o all’Arabia Saudita, poi, per compensare ciò, bisogna venderne di più a Israele, in modo che mantenga un vantaggio sui paesi arabi. Chi ci guadagna è comunque sempre l’industria bellica USA. La fine dello status quo e la pace potrebbero capovolgere tutto ciò, ma forse è per questo che non cambia mai nulla. E’ un po’ quello che succede con l’industria penitenziaria americana.

Cioè?

Per esempio, Obama sarebbe d’accordo per legalizzare la marijuana, ma c’è una lobby delle prigioni – un business privato – che ha tutto l’interesse a mantenere alto il livello di criminalizzazione.

E la figura di Peres in questo diabolico meccanismo imperiale/affaristico?

Alla fin fine, se vogliamo, Peres era un mero ingranaggio  e in generale lo stesso sionismo è finito per diventarlo.

Quindi lei non vede Obama come un presidente pacifista?

In generale, direi proprio di no, a cominciare dalla politica dei droni che causa regolarmente molte morti tra i civili. E non dimentichiamo il suo rifiuto di perseguire i criminali di guerra USA sotto la previa amministrazione Bush.

L’ipotesi di Israele e la Palestina come due stati paralleli può funzionare?

Potrebbe funzionare, ma non sta andando da nessuna parte. Israele continua a voler far credere agli USA e all’Europa di collaborare a un processo di pace. I Palestinesi ricevono aiuti dall’UE e dagli Stati Uniti e così il gioco continua senza una vera risoluzione.

 

   

Autore

  • Attilio De Alberi
    Attilio De Alberi

    Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.

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Pubblicato da

Attilio De Alberi

Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.


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