Negli ultimi giorni si è fatta piuttosto pesante la tensione tra gli USA e la Repubblica Islamica dell’Iran. Da un lato continuano le sanzioni imposte da Trump a Teheran dopo l’uscita americana dall’accordo internazionale sul nucleare iraniano (JCPOA), ed ora se ne sono appena aggiunte delle nuove che riguardano le industrie di ferro, acciaio e rame. Dall’altro lato è in arrivo nel Golfo Persico la portaerei statunitense USS Abraham Lincoln, accompagnata da un lanciamissili, un cacciatorpediniere e quattro bombardieri pesanti B-52. Ora si aggiungono anche aerei Patriot e mezzi anfibi da sbarco.
L’arrivo di questa possente forza militare era stato programmato da tempo, ma il noto guerrafondaio John Bolton, Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Trump, ha voluto specificare che tale operazione è stata accelerata grazie a delle “informazioni” di fonte israeliana su un presunto attacco iraniano alle varie postazioni USA presenti in Medio Oriente.
[la portaerei statunitense USS Abraham Lincoln]
La reazione iraniana non si è fatta attendere, ed il presidente iraniano Rohani ha annunciato di non volere più rispettare uno dei punti del JCPOA, ossia quello che impone al paese di cedere all’estero l’eccedenza di 300 kg di uranio arricchito e di 130 tonnellate di acqua pesante. Ha dato, pochi giorni, fa una scadenza di 60 giorni per poi uscire, in parte, dall’accordo.
Gli USA rimangono comunque l’unico paese tra i firmatari dell’accordo nucleare con l’Iran (gli USA l’avevano firmato sotto la presidenza di Obama, ma poi tutto venne capovolto da Trump, ndr) a remare contro questo paese, che, a causa delle sanzioni, sta soffrendo una crescente crisi economica, soprattutto per ciò che riguarda l’esportazione del petrolio.
La vera domanda, tenendo anche conto della vicinanza americana ai due grandi nemici dell’Iran in Medio Oriente, cioè Arabia Saudita ed Israele, è se tutta quella che può per ora essere descritta come una “guerra psicologica” potrà generare in un futuro non lontano un vero e proprio conflitto armato, con conseguenze senz’altro deleterie per l’intera regione, e non solo.
Discute di tutto questo con YOUng Luciana Borsatti, autrice del libro “L’Iran al tempo di Trump” (Castelvecchi Editore), e buona conoscitrice del paese, avendo passato a Teheran due anni come corrispondente per l’ANSA. Ora Luciana Borsatti è una giornalista freelance ed ha un blog sull’Huffington Post.
L’INTERVISTA
Esiste un vero pericolo di conflitto militare tra USA e Iran?
Non credo che nessuno politico responsabile voglia veramente la guerra, tanto più in un contesto regionale così esplosivo come il Golfo Persico. La vogliono forse avventurieri come John Bolton e altri falchi della Casa Bianca, ma da qui a trovare il consenso del Pentagono ce ne vuole. Quel che è certo è che rincorrere un’escalation ha l’effetto di alzare ulteriormente il livello della “massima pressione” di Trump contro l’Iran, mettendo ancor più in difficoltà i moderati al governo e favorendo il loro compattamento con gli ultraconservatori più ostili al dialogo. L’alta tensione potrebbe inoltre far scoppiare qualche incidente militare, in particolare nel Golfo, magari tra una nave USA ed una pattuglia di Pasdaran, ma è probabile che entrambe le parti siano consapevoli che vi sono linee rosse da non superare.
Fino a che punto sono veritiere le “informazioni” che John Bolton dice di aver ottenuto tramite i servizi segreti israeliani su un presunto attacco iraniano in preparazione?
Per definizione le informazioni di intelligence sono difficili da verificare, ma mi pare che la natura estremamente vaga delle “minacce” di cui Bolton ha parlato abbia incontrato lo scetticismo di altre fonti ben informate, tanto da far ridimensionare la cosa anche sulla stampa USA, pur pronta a raccogliere l’allarme del Consigliere di Trump per la sicurezza. Persona che d’altra parte non ha mai nascosto il suo approccio bellicoso alla questione iraniana, in linea con quello del governo israeliano, e le cui affermazioni proprio per questo andrebbero sempre prese con estrema cautela.
Quali potrebbero essere gli sviluppi della ritorsione di Rohani, che ha annunciato di volere disobbedire tra 60 giorni ad alcuni punti dell’accordo sul nucleare?
Non definirei la risposta del presidente iraniano una “ritorsione” né tanto meno una “disobbedienza” la scelta del Supremo Consiglio di Sicurezza Nazionale di cominciare a ridurre la propria adesione – finora certificata per 14 volte dall’AIEA (Agenzia Internazionale Energia Atomica) – agli impegni sottoscritti con l’accordo. Si tratta di una mossa che giunge dopo un intero anno di rinnovati appelli di Teheran all’Europa e agli altri partner dell’accordo affinché si trovasse il modo, dopo l’uscita “unilaterale” degli Usa e le loro nuove pesanti sanzioni non solo all’Iran ma anche ai suoi partner economici, di permettere all’Iran di godere dei benefici per i quali aveva accettato di limitare lo sviluppo del proprio nucleare civile. A tali appelli l’Europa ha risposto solo con parole o poco più. Per questo stavolta Teheran ha deciso di passare ai fatti, ma tenendo ancora aperta la strada della diplomazia. I 60 giorni non sono un ultimatum, ma vanno ancora intesi come un’ultima finestra temporale perché si trovino soluzioni. L’Iran ha annunciato che cesserà di rispettare il limite previsto dall’accordo per le proprie scorte di uranio a basso arricchimento e di acqua pesante. D’altra parte, sono stati gli stessi Usa che, non avendo il 4 maggio rinnovato le deroghe ad alcune sanzioni, gli avevano appena impedito di farlo, vietando appunto l’export delle scorte in eccesso. Se entro due mesi l’Europa non troverà strade più concrete per venire incontro alle giuste attese di Teheran, l’Iran riprenderà ad arricchire l’uranio e tornerà ai piani originali per lo sviluppo del reattore ad acqua pesante di Arak. Ma questo non vuol dire che si avvierà verso un proprio arsenale atomico. Sarebbe del resto suicida se lo facesse, visto che è circondato di potenze nucleari (Israele in particolare, anche se non dichiarata) e di Paesi rivali armati fino ai denti dagli Usa, come l’Arabia Saudita e gli Emirati. Per questo il reiterato allarme sulla possibilità di un Iran con la bomba atomica resta assolutamente pretestuoso. L’Iran, a differenza di Israele, aderisce al Trattato di non proliferazione nucleare; l’AIEA ha chiuso definitivamente la questione della possibile dimensione militare del suo programma nucleare nel 2015. Se l’Iran mai decidesse di riaprire quel capitolo ci vorrebbero tecnicamente, ad oggi, svariati mesi per arrivare alla soglia di un’arma atomica, e lo farebbe solo in risposta ad atti fortemente offensivi di altri. La Repubblica islamica in questi 40 anni non ha mai dichiarato guerra a nessuno.
Esistono all’interno dell’Iran fazioni più pronte alla guerra rispetto al moderato Rohani?
Certo che esistono, in particolare tra i Pasdaran, o Guardiani della rivoluzione, che sono un potente apparato militare, con un corpo specializzato per le operazioni all’estero diretto da Qassem Soleimani, ed una propria struttura di intelligence. Ma gli stessi Pasdaran sono anche divenuti con il tempo un potentato economico, hanno interessi in tutti i settori dell’economia. Nemmeno a loro, in fondo, interessa mettere a rischio questa ricchezza.
Come valutare la crisi economica iraniana come conseguenza delle sanzioni imposte dagli USA?
La crisi in atto, con una seria svalutazione del rial e alti tassi di inflazione che hanno tragicamente peggiorato le condizioni dei ceti medi, è sicuramente l’effetto delle sanzioni, ma non solo. Vi sono analisti ed economisti iraniani, anche vicini al governo, che ritengono che riforme radicali e coraggiose in campo economico metterebbero al riparo l’Iran da una parte degli effetti delle sanzioni Usa. Certo, la chiusura dei canali bancari, le sanzioni all’export del petrolio e ora, da qualche giorno, anche dei metalli e dell’acciaio pesano molto su un’economia ricca di risorse energetiche e primarie, ma anche di manodopera qualificata, di uno sviluppato settore industriale e di un vasto mercato interno. Per questo l’Iran definisce, a ragione, una “guerra economica” quella che già da due anni la presidenza Trump ha lanciato contro il Paese. E sono molti a pensare che il vero obiettivo di Trump è mettere le mani sul gas, il petrolio e le risorse iraniane.
Che dire sulle reazioni della UE alla crisi USA-Iran in corso?
L’Europa continua a dimostrarsi debole, e fa sempre più fatica a parlare con una voce sola. Ma l’Europa deve capire che salvare l’accordo sul nucleare è non solo una sua affermazione di sovranità ed un atto doveroso a tutela dei propri operatori economici, ma anche una scelta di difesa dei suoi principi fondanti e dei suoi interessi: i principi della diplomazia e del multilateralismo, e la propria stessa sicurezza, vista la sua vicinanza al Medio Oriente. Per questo deve fare di più. Lo strumento Instex non basta perché ora limitato solo all’esportazione in Iran di cibo e beni umanitari. L’Europa deve usarlo, come doveva essere all’inizio, anche per importare petrolio iraniano e altri beni sanzionati, e permettere ai propri grandi gruppi e piccoli e medi imprenditori di tornare a lavorare serenamente con l’Iran, come previsto con l’accordo sul nucleare del 2015.
Si può dire che il governo Conte mostri una certa debolezza nei confronti degli USA, per ciò che riguarda il blocco delle importazioni di petrolio iraniano?
Certamente sì: l’Italia era stata esentata per sei mesi dalle sanzioni sul petrolio iraniano, ma non ne ha importato una goccia. Sulla questione iraniana questo governo è afasico e incapace di esercitare qualunque ruolo forte in Europa su questo tema. E anche tra gli osservatori iraniani l’Italia sta perdendo molto del credito che aveva acquistata in questi ultimi decenni di intense relazioni, economiche e non solo, pur essendo tornato primo partner commerciale nel 2017 anche grazie alla vivacità del suo tessuto di PMI (il portale delle piccole e medie imprese italiane.
In tutto questo gioco quali sono le posizioni di Russia e Cina?
Ognuna di queste due potenze ha una propria agenda diversificata e problemi da affrontare con la Casa Bianca. Ma restano le due sole potenze su cui l’Iran può ancora contare. E anche sul piano economico, viste le ambiguità dell’Europa, l’Iran sta guardando sempre più ad Oriente.