Mentre Donald Trump era in viaggio ad Hanoi per incontrare il leader nord coreano Kim Jong-un in un summit che poi si è rivelato un flop, in patria si stava scatenando una vera e propria bufera causata dal suo ex avvocato e fixer (risolutore di problemi) Michael Cohen, che si è presentato pubblicamente e volontariamente di fronte al Comitato di Supervisione della Camera dei Rappresentanti a Washington prima di andare in galera.
Parliamo di bufera, perché Cohen si è scatenato contro il suo ex-cliente, dandogli del razzista, del truffatore e dell’imbroglione.
Cohen si è concentrato su vari aspetti delle attività del presidente USA, e ha confermato che “The Donald” aveva saputo che Wikileaks avrebbe pubblicato le e-mail del DNC (Comitato Democratico Nazionale) per danneggiare Hillary Clinton; che era coinvolto nel piano per mettere a tacere la star porno Stormy Daniels; che, pur continuando a negarlo, le trattative per la costruzione della Trump Tower a Mosca fossero continuate anche durante la campagna presidenziale.
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Ha fatto poi capire che Trump aveva aspettative molto basse circa la possibilità sia di vincere le primarie che di diventare poi presidente, e che abbia usato la sua campagna con un puro scopo di marketing per il suo piccolo impero.
Questa uscita di Cohen sembra nascere da un senso di colpa per aver fatto da copertura a Trump in così tante occasioni, come quasi lui si volesse pulire la coscienza. Ed infatti è indicativo ciò che ha dichiarato ai vari rappresentanti repubblicani che hanno fatto di tutto per denigrarlo e dargli del bugiardo: “Sono responsabile della vostra stupidità perché ero voi. Ho fatto quello che state facendo voi in questo momento: mentire per proteggere il signor Trump”.
Indipendentemente dalla possibilità che Trump subisca o no una procedura d’impeachment, una cosa è certa: l’immagine del presidente USA ne è uscita senza dubbio danneggiata, anche perché dall’intervento di Cohen esce fuori uno scenario fosco e quasi di stampo mafioso, con personaggi assetati di potere, e con i figli maschi di Trump che cercano l’attenzione del padre nel tentativo di stabilire un legame con i russi.
Intanto, notizia dell’ultima ora, la commissione giustizia della Camera dei Rappresentanti si sta muovendo per avviare indagini per abuso di potere, corruzione e ostruzione della giustizia nei confronti di Trump, il quale, tipicamente, in uno dei suoi soliti Tweet ha parlato di “caccia alle streghe”. Questa mossa non porterà necessariamente ad un impeachment.
Parla del caso Cohen ed altro a YOUng Stefano Luconi, noto storico degli Stati Uniti e docente presso l’Università di Genova.
[sostieni]
L’INTERVISTA
Trump accusa Cohen che la sua uscita pubblica sia stata fatta per diminuire la pena da scontare in carcere, ma Cohen è già stato condannato e dovrà comunque farsi tre anni di galera…
Sì, anche perché la sua testimonianza non è il risultato di un negoziato con gli inquirenti. E’ stata una sua iniziativa personale, e non c’è una contropartita. Penso che, umanamente, Cohen si sia sentito scaricato fin da subito dal presidente, e quindi, in qualche modo, voglia rivalersi.
Una specie di piccola-grande vendetta…
Direi più piccola che grande. Forse l’aspetto che più ha colpito Trump è la coincidenza della sua testimonianza con il vertice ad Hanoi con Kim Jong-un, tra l’altro non andato particolarmente bene, perché ha un po’ distolto l’attenzione dei media da questo momento in cui lui si doveva presentare come un grande statista. Invece poi l’attenzione è stata monopolizzata da Cohen.
La sua solita arma di distrazione di massa…
Certo, e poi direi che è una vecchia strategia. Si fa spesso un’analogia tra Russiagate e Watergate, laddove Nixon cercava di presentarsi come grande statista via l’apertura alla Repubblica Popolare Cinese ed il rilancio della distensione per relegare, appunto, in un cantuccio lo scandalo Watergate. Insomma, è una storia che si ripete.
Cohen è riuscito ad offrire un’immagine molto negativa di Trump.
Sì, infatti l’ha descritto come razzista, truffatore ed imbroglione. Però direi che è più una questione d’immagine che di sostanza.
In che senso?
Sull’aspetto più scottante della vicenda, quello che potrebbe avere delle ripercussioni a livello di un molto ipotetico impeachment, ossia il Russiagate, Cohen ha detto che Trump non gli ha chiesto di mentire in maniera diretta. Tant’è vero che nella sua conferenza stampa di giovedì, Trump ha detto che le dichiarazioni di Cohen sono al 95% falsità. Il rimanente 5% lo scagiona dalla collusione con Putin.
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Però una questione sulla quale Cohen ha insistito ed è stato veritiero è quella della costruzione della Trump Tower a Mosca.
Sì, però qui si va molto di più nella sfera dell’etica che non in quella del diritto penale.
Cioè?
Non è opportuno che il futuro capo degli Stati Uniti abbia dei rapporti di affari con un’entità straniera, però tutto questo è avvenuto durante la campagna elettorale, quando Trump era ancora un privato cittadino. L’opinione pubblica può trovarlo disdicevole, ma la sostanza penale non c’è. Poi Trump ha sempre smentito queste sue relazioni di affari, ma l’ha fatto nelle conferenze stampa, non sotto giuramento, per cui non si potrebbero ravvisare gli estremi dello spergiuro, della falsa testimonianza. Quindi non si può andare molto lontano su questa faccenda.
E’ interessante scoprire, grazie all’uscita di Cohen, che Trump, in realtà, non aveva alcuna speranza di diventare presidente, e che la sua campagna presidenziale fosse più una mossa pubblicitaria a favore dei suoi interessi privati a livello di business.
Sembra effettivamente che abbia quasi vinto per caso. Trump voleva più rilanciare le sue azioni, la sua popolarità e quindi magari accrescere le sue opportunità di condurre affari. Invece poi si è ritrovato alla Casa Bianca.
Intanto Mueller continua la sua inchiesta sul Russiagate, ma sembra metterci molto tempo per concluderla. Quando lo farà?
Ci sono delle inchieste che sono andate avanti per anni, quindi non penso che Mueller abbia fretta. E’ anche in ballo la sua credibilità professionale. Se la prende con calma, anche perché non vuol dare l’impressione che i tempi dell’indagine siano determinati dal conflitto partitico tra repubblicani e democratici. Sui tempi si possono fare degli esempi storici.
Quali?
L’inchiesta di Kenneth Starr su Bill Clinton è andata oltre la campagna elettorale del 1996, e quindi oltre l’elezione del presidente. In pratica, questo tipo di inchieste non sono necessariamente dettate dalla politica e dalle scadenze elettorali.
Intanto, lo stato di emergenza dichiarato recentemente da Trump potrebbe essere revocato o potrebbe diventare operativo?
Lo stato di emergenza può non procedere solo se c’è una risoluzione della camera e del senato che nega le circostanze che conducono ad essa. Martedì scorso la Camera dei Rappresentanti ha votato una risoluzione in tal senso, con la maggioranza scontata dei democratici, alla quale si è aggregato il voto di 13 deputati repubblicani. Adesso si attende la risoluzione del senato, dove il Partito Repubblicano ha la maggioranza. Però, qualora la risoluzione contraria dovesse passare anche qui, cosa che il capogruppo repubblicano non ha escluso, Trump potrebbe ricorrere al veto. Né alla camera, né al senato c’è una maggioranza di due terzi che potrebbe scavalcare tale veto.
Quali altri mezzi ci sarebbero essere utilizzati per bloccare lo stato di emergenza?
Un’altra strada, anche questa ipotetica, è quella del contenzioso giudiziario. Già 16 stati a guida democratica, a partire dalla California, hanno fatto causa all’amministrazione Trump, ritenendo che questa decisione è illegittima.
Perché?
Perché rappresenta un abuso da parte del presidente, e perché i fondi necessari a costruire il muro sulla frontiera col Messico sarebbero sottratti alla Guardia Nazionale, di fatto un corpo statale. Ma ci sarebbe sempre un problema.
Quale?
Qualsiasi contenzioso giudiziario di questo genere arriva poi alla Corte Suprema, dove però c’è una maggioranza conservatrice allineata su Trump, e quindi è blindata. Ci potrebbe essere una sospensiva tra la decisione di un giudice federale e l’arrivo alla Corte Suprema, ma alla fine la presidenza Trump vincerebbe. Ci sono poi anche delle organizzazioni di privati cittadini e di ambientalisti che hanno intentato causa all’amministrazione Trump, pensando, per esempio, all’impatto ambientale della costruzione di questa barriera. E’ sempre una questione di tempo, e ci potrebbe comunque essere un nuovo presidente pronto a revocare la condizione di emergenza nazionale.
Nelle primarie democratiche, a parte Bernie Sanders e Joe Biden, c’è un numero molto alto di candidati.
Sì, e ci sono anche molte donne.
Trump ha già cominciato ad attaccare i candidati.
Sì, lo fa con affermazioni sguaiate a livello personale. Non sono attacchi di natura politica.
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E’ prematuro dire chi potrebbe alla fine essere l’eventuale candidato democratico alle prossime presidenziali?
E’ decisamente prematuro, più che altro perché più che candidature ufficiali abbiamo la costituzione di comitati esplorativi che dovrebbero poi riferire al potenziale candidato se ci siano le condizioni per concorrere. E molto dipende dalla disponibilità di fondi da parte dei candidati. Una cosa è esprimere la propria candidatura, un’altra è poi fare la campagna elettorale. La moltiplicazione dei candidati porta poi ad una dispersione dei fondi dei possibili finanziatori, e questo, tendenzialmente, favorisce i candidati che hanno già una presenza ed un seguito a livello nazionale, come Sanders a livello di popolarità e Joe Biden perché di tutti i candidati è quello più istituzionalmente legato al Partito Democratico. Se i candidati sono tanti i finanziatori sono poi incerti su chi finanziare, e spesso aspettano la fine delle primarie per non disperdere il loro capitale, per fare un investimento sulle politiche dell’eventuale vincitore.
Tra l’altro è stato rivelato che due dei potenziali candidati democratici, Kamala Harris e Cory Booker, si stanno organizzando per chiedere finanziamenti proprio a Wall Street, chiaramente in opposizione alla filosofia di Sanders.
Sì, però bisogna vedere fino a che punto la base democratica sia disposta ad accettare queste strategie. Per Hillary Clinton la sua principale criticità a livello di elettorato democratico consisteva nel fatto che era troppo allineata coi potentati finanziari. Nello stato attuale della politica USA, cercare fondi a Wall Street mi pare un passo falso iniziale, o almeno un atteggiamento che non tiene conto delle dinamiche della campagna del 2016.
Per chi vuole divertirsi, ecco due video satirici tratti da Saturday Night Live su due dei soggetti trattati nell’articolo: