Sarà pur vero, come aveva annunciato Luigi Di Maio lo scorso ottobre, che i furbetti del reddito di cittadinanza rischiano fino a sei anni di carcere; ma la minaccia non sembra aver sortito gli effetti sperati. Al contrario, si è già messa in moto la gioiosa macchina da guerra degli azzeccagarbugli pronti a setacciare le pieghe del provvedimento, alla ricerca di un appiglio per approfittare del lauto sussidio. Perché, come vuole l’italica tradizione, fatta la legge trovato l’inganno: cambi di residenza, finte separazioni, ed ecco che il reddito di cittadinanza si trasforma nel nuovo albero della cuccagna. Inutile negarlo o nascondersi dietro ipocriti voli pindarici: il reddito di cittadinanza è un provvedimento che si inserisce alla perfezione nel solco dell’assistenzialismo fasullo che affonda le sue radici negli anni Settanta e del quale il Movimento 5 Stelle ha preso il testimone.
Si tratta dell’ennesimo capitolo di una lunga storia di ridistribuzione clientelare delle risorse pubbliche e di welfare parassitario. È esattamente il contrario di ciò che avrebbe bisogno, in questo momento, l’Italia: il reddito di cittadinanza sembra fatto apposta per sigillare con la ceralacca tutto quell’insieme di cliché e stereotipi sui popoli latini fannulloni e indolenti al lavoro. È una dichiarazione di resa, quasi d’inferiorità, di fronte alle previsioni economiche della Commissione europea che ci vedono interpretare il ruolo di fanalino di coda dell’Unione con una misera “crescita” pari allo 0,2%, ben al di sotto dello 0,5% stimato dal governo. La verità scomoda, che nessuno vuole proferire con schiettezza – un po’ per paura dei sacerdoti del politicamente corretto, un po’ per non essere etichettati come razzisti dall’isterismo progressista – è che il reddito di cittadinanza altro non è che una versione post-moderna delle pensioni di invalidità. Sia chiaro: il problema non sono certo gli invalidi o chi si trova in una situazione di povertà.
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Il problema è che in questo Paese, ormai da decenni, provvedimenti che hanno una ratio teoricamente corretta – non si può certo negare che gli invalidi abbiano reale bisogno di un aiuto, o che sia legittimo un sostegno verso chi è povero – si trasformano in una sorta di ammortizzatore sociale per una pletora di parassiti e furbetti. Già si sprecano le scorciatoie per ottenere il reddito di cittadinanza: così come per moltissimi casi che hanno riguardato le pensioni di invalidità, finirà nelle tasche di chi non ha i requisiti ma banchetterà lautamente con i soldi dei contribuenti, magari protetto dalla solita rete di burocrazia e politica locale connivente. L’Osservatorio CPI – Conti pubblici italiani – ha messo in luce una preoccupante tendenza in merito alla spesa per le pensioni di invalidità: nell’arco di quindici anni è aumentata di oltre il 60%. Dal 2014, in particolare, si è registrata un’ulteriore impennata: si contavano 4670 prestazioni di invalidità ogni 100 mila abitanti. Nel 2017, si è saliti a 5051 ed è aumentato ulteriormente il divario fra regioni: il primato va al Sud e alle isole. Il numero di prestazioni di invalidità ogni 100.000 abitanti in Calabria è il doppio di quello dell’Emilia-Romagna (la regione con meno prestazioni di invalidità). Valori particolarmente alti si riscontrano anche in Sardegna, Umbria, Puglia e Sicilia. Le parole di Carlo Cottarelli, ex commissario per la spending review e direttore dell’Osservatorio, sono emblematiche: «È un fenomeno particolarmente odioso perché, oltre ad accrescere la spesa pubblica, sottrae risorse a chi avrebbe bisogno di maggiore assistenza». La criticità è nota: il welfare italiano funziona male non per mancanza di fondi, ma perché i soldi a disposizione arrivano nelle tasche sbagliate.
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Il lavoro non si crea per decreto e la povertà non si abolisce per legge.
L’unico modo per aiutare le persone ad uscire da uno stato di povertà è mettere gli imprenditori nelle condizioni di creare posti di lavoro e attuare un grande piano di infrastrutture per rilanciare il Paese. All’orizzonte, però, si addensano nubi minacciose. Secondo i dati ISTAT, la produzione industriale italiana è diminuita a dicembre del 2018 dello 0,8% rispetto al mese precedente e del 5,5% rispetto all’anno precedente: una flessione settoriale diffusa che colpisce in maniera particolare il comparto automobilistico. Si tratta della peggiore performance dal 2012: un crollo che certifica una situazione di grandissima difficoltà per la nostra economia e che sta creando le prime vere fibrillazioni nel governo giallo-verde.
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