Ha fatto subito scalpore a livello internazionale, e, guarda caso, subito dopo la visita ufficiale del nuovo Segretario di Stato e noto falco Mike Pompeo a Tel Aviv, l’uscita teatrale di Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, con la quale ha cercato di dimostrare (notare: in inglese) che l’Iran sta rompendo l’accordo sul nucleare stipulato nel maggio 2015 dagli Stati Uniti, insieme a Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia e Cina e l’Alto rappresentante Ue per la politica estera. Netanyahu ha asserito che l’Iran ha un programma segreto, chiamato Amad, per la creazione di cinque ordigni nucleari della stessa portata di quello usato su Hiroshima.
Notare che proprio non molto tempo fa lo stesso comandante dell’esercito israeliano aveva affermato che finora l’Iran ha rispettato l’accordo.
Questa “ideona” di “Bibi” sembra arrivare come un vero e proprio assist a Donald Trump, che già in campagna elettorale, ed ora più che mai, si sta proponendo di non certificare appunto l’Iran Nuclear Agreement Review Act, da lui ripetutamente definito “orribile”, in totale opposizione alla politica distensiva del suo predecessore Obama. Tutto questo nonostante gli sforzi da parte di Macron e Federica Mogherini per fargli cambiare idea.
Ultimi sviluppi: il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres, in un’intervista alla BBC, ha praticamente diffidato Trump dall’uscire dall’accordo, paventando il pericolo di una possibile guerra, mentre l’Iran ha dichiarato che se gli USA si ritirassero, anche loro lo farebbero.
Dovremo attendere il 12 maggio per sapere ufficialmente se questa sua intenzione si tramuterà in una mossa politica che potrebbe avere gravi conseguenze a livello internazionale. E proprio quel giorno Trump si recherà in Israele, magari portando in “regalo” a Netanyahu l’uscita degli USA dall’accordo sul nucleare.
Mentre Trump ha immediatamente mostrato soddisfazione per lo show di “Bibi”, proprio perché avrebbe dimostrato al “100%” che i suoi sospetti erano giustificati, il Ministro degli Esteri iraniano Mohamed Javad Zarif, ha reagito definendo il Primo Ministro israeliano un “imbarazzante imbroglione” che grida “al lupo al lupo”.
Intanto Federica Mogherini, a nome della UE, ha dichiarato subito che non ci sono prove concrete dietro le affermazioni di Netanyahu e che solo l’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) incaricata di controllare se l’Iran sta ottemperando all’accordo del 2015 – e che finora ha certificato che la Repubblica Islamica in realtà lo sta facendo – può dire se c’è della verità dietro di esse.
Ma al di là di queste schermaglie politico-pubblicitarie, la domanda è se la visione che si ha in Occidente dell’Iran sia obiettiva e non invece influenzata da un pregiudizio monotematico e parziale, che, in qualche modo, tuttora considera questa potenza come uno “stato canaglia”.
A questo proposito è molto stimolante la recente pubblicazione del volume “L’Iran al tempo di Trump” della giornalista Luciana Borsatti (Castelvecchi Editore). L’autrice conosce molto bene il paese, essendo stata corrispondente dell’ANSA a Teheran per oltre due anni, ed è giunta ad una valutazione più sottile e variegata della realtà politica e sociale iraniana, che discute con YOUng. Secondo lei i media occidentali, compresi quelli italiani, tendono a seguire a rimorchio, senza approfondire, una certa visione unilaterale, strumentale a fini di parte, e comunque limitata dell’Iran. Il suo libro nasce proprio dal desiderio di correggere questa tendenza, dando conto della complessità del Paese e mettendone in luce anche gli aspetti lasciati in ombra. Non con intenti partigiani, sottolinea lei stessa, ma con il solo intento di dare un contributo alla completezza dell’informazione, primo dovere deontologico di un giornalista.
L’INTERVISTA:
Come vedere le recenti accuse di Netanyahu contro l’Iran?
S’innestano in un conflitto aperto ormai già in corso da tempo, anche se a bassa intensità e sul teatro siriano sul piano militare, tra Israele e l’Iran. Per ciò che riguarda le accuse sullo sviluppo di armi nucleari, in realtà quello che Netanyahu ha mostrato è che in passato l’Iran progettava tale sviluppo. Quindi si è riferito a potenziali sviluppi precedenti l’accordo del 2015, e ritenuti dall’AIEA definitivamente conclusi nel 2009. E, come ha fatto notare Federica Mogherini, bisogna attenersi a ciò che è successo dopo la firma dell’accordo. E appunto l’AIEA ha certificato che finora l’Iran ha rispettato l’accordo.
L’uscita di “Bibi” sembra forse più un aiuto a Trump che insiste nel voler uscire dall’accordo.
Certo, i due si fanno i favori a vicenda. Ed infatti questa iniziativa avviene a dodici giorni dalla data in cui Trump dovrebbe decidere se far rimanere gli USA nell’accordo o no.
Il Ministro degli Esteri iraniano Zarif ci ha subito scherzato sopra.
Gli iraniani non possono che minimizzare la portata di queste iniziative proprio perché le informazioni fornite da Netanyahu sono chiaramente usate a fine propagandistico.
L’ironia è poi che proprio Israele è l’unico paese nella regione in possesso di armi nucleari.
Netanyahu ha accusato l’Iran di mentire su presunti progetti di utilizzo militare del nucleare, ma anche l’altro giorno non ha risposto, in un’intervista alla Cnn, alla precisa domanda se Israele abbia o meno un arsenale atomico, come diffusamente si ritiene a livello internazionale. Inoltre, Israele non ha siglato il trattato di non-proliferazione nucleare che invece l’Iran ha sottoscritto.
Perché ha scelto d’intitolare il suo libro “L’Iran al tempo di Trump”?
Questo è un titolo che vuole marcare una svolta nel clima politico internazionale con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca: una svolta sintetizzata nel fortunato tweet “Trump sembrava Ahmadinejad e Rohani sembrava Obama”, divenuto virale subito dopo l’intervento all’Assemblea generale delle Nazioni Unite del presidente iraniano Hasan Rohani, che il 20 settembre 2017 risponde alle pesanti accuse contro l’Iran scagliate il giorno prima da Trump. Era un modo di dire: ora i guerrafondai sono a Washington, mentre i moderati sono a Teheran.
Sta quindi dicendo che molto è cambiato con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca.
Sì, innanzitutto da allora si è impoverita l’informazione sull’Iran. Ho sentito l’esigenza, come giornalista, di affermare che l’Iran non poteva essere messo di nuovo nell’angolo e demonizzato come “stato canaglia”, sacrificando tutta la sua complessità politica e sociale, la sua ricchezza culturale e la sua pluralità di voci e punti di vista, di cui ho potuto essere testimone attraverso la mia permanenza nel paese e che ho cercato di rappresentate almeno in parte con le tante interviste raccolte nel mio libro.
Una delle critiche che si muovono all’Iran è il voler mantenere una sfera d’influenza che, attraverso la Siria arriva fino al Libano, con la forte presenza di Hezbollah, notoriamente filo-iraniano.
La prima domanda da farsi è questa: chi ha finanziato le milizie jihadiste in Siria, trasformando una rivolta di piazza in un incubo che dura ancora dopo sette anni? Non certo l’Iran, bensì l’Arabia Saudita e gli stati del Golfo, con il sostegno degli USA. L’Iran è intervenuto, come anche la Russia, per sostenere il proprio alleato, il presidente Assad.
Quindi l’Iran non ha delle particolari mire espansionistiche, ma vuole solo avere la sua sfera di influenza.
E’ in atto da anni un confronto tra potenze per il controllo sulla regione: l’Arabia Saudita vuole avere a sua volta una sua influenza nella regione, l’Iran sostanzialmente dice: ”Anche noi apparteniamo a questa regione, quindi sediamoci senza attori esterni e discutiamo insieme di come ricreare condizioni di stabilità e sicurezza nella regione ”. Questo l’ha detto esplicitamente Zarif. Ma non vi sono solo ragioni geo-strategiche dietro all’intervento iraniano in Siria. Nel mio libro cerco di comprendere anche le origini di un consenso interno (diffuso ma non certo condiviso da tutti) a tale intervento, che vanno dalla necessità di difendere la sicurezza interna del Paese dalla minaccia terroristica ad un culto del ‘martirio’, radicato nella storia e nella cultura sciita, che si lega alla difesa dei luoghi santi dello sciismo e del ‘vero’ islam contro il jihadismo di impronta sunnita-salafita e all’ideologia di una Repubblica islamica che lavora a favore degli oppressi.
E cosa dire dell’accusa di terrorismo rivolta proprio all’Iran?
Il concetto di terrorismo è molto scivoloso, la sua attribuzione a questo o quel soggetto ha spesso ragioni politiche ben rintracciabili. Domandiamoci: qual è il terrorismo che finanzia l’Iran? I combattenti di Hezbollah, nemici di Israele ma che hanno contributo alla sconfitta dell’Isis? Il giovane Pasdaran decapitato dall’Isis in Siria nell’agosto scorso, divenuto eroe nazionale in Iran anche per quello sguardo fiero che aveva opposto al suo disorientato carnefice già sporco di sangue? Per Assad sono terroristi tutti i suoi oppositori, e per il presidente turco Erdogan lo sono i giornalisti scomodi e le migliaia di funzionari dello stato accusati di essere affiliati al presunto golpista Gulen. L’uso del termine “terrorista” viene spesso fatto e accolto in modo acritico, senza nessun vero spessore storico.
Esiste un dibattito politico in Iran?
Certamente: è anche molto vivace e diffuso su tutti i media, ed ora più di prima grazie alla guida del moderato di Hassan Rohani. Anche se ci sono limiti di critica da non oltrepassare, e in carcere ci finiscono anche i giornalisti. Ma nello standard generale del rispetto dei diritti umani e di espressione in Medio Oriente, l’Iran non è certo al gradino più basso.
Quindi, insieme ad uno zoccolo duro di ultraconservatori e Guardiani della rivoluzione, esiste una forte componente moderna e democratica.
Esiste senz’altro tutto un mondo aperto alla modernità ed alla democrazia, pur nella cornice della struttura costituzionale della Repubblica islamica. Ci sono quindi dei limiti, ma entro questi limiti molto si può dire e molto si può fare. Ora, non è un caso che i riformisti, primo bersaglio della repressione del 2009, si siano allineati con un conservatore moderato come Rohani.
Perché?
Hanno capito che l’unica via per il cambiamento è quella di un processo di riforma interna del sistema, senza interventi esterni e avventuristici tentativi di ‘regime change’.
C’è una differenza tra il clima di rivolta del 2009, ispirato più da motivazioni politiche, e quello dello scorso dicembre e gennaio, più concentrato su istanze economiche?
Nel 2009 la rivolta nasceva dal sospetto che il voto per il riformista Musavi fosse stato falsificato a suo svantaggio: in quel momento storico c’era un movimento guidato da riformisti con una leadership, poi sconfitto dalla repressione. Le recenti proteste nascono da un diffuso malcontento economico, anche se sono state alimentate dai rivali conservatori di Rohani, e poi hanno assunto connotazioni politiche, con slogan anche contro la Guida Suprema Ali Khamenei. E’ interessante notare che non solo Rohani, ma lo stesso Khamenei, hanno, con diversi accenti, affermato che in fondo la gente aveva il diritto di protestare.
L’ultra-conservatore Ahmadinejad appare ora piuttosto isolato nel quadro politico iraniano.
Sì, non solo si è inimicato Khamenei, anche per motivi dottrinali, e i potenti Guardiani della rivoluzione, ma alcuni dei suoi alleati sono nel mirino della magistratura per reati finanziari.
Oltre al problema delle sanzioni, ancora in parte in vigore contro l’Iran e che tornerebbero a pesare in caso di uscita degli Usa dall’accorso sul nucleare, ci sono anche altri problemi che rallentano il sistema economico iraniano?
Certo: per esempio, c’è una certa difficoltà per l’impresa privata nel farsi strada in un quadro dominato dal potentato anche economico, e non solo politico e militare, dei Guardiani della Rivoluzione. Sussiste poi un certo grado di corruzione e c’è anche la questione dei sussidi che appesantisce le casse dello stato.
Che tipo di sussidi?
In Iran ci sono 30 milioni di persone che vivono sotto la soglia della povertà, ma la politica dei sussidi ancora in vigore richiede riforme per essere efficace. Ci sono poi sussidi per la benzina che la rendono fin troppo economica, e sui quali il governo Rohani ha cercato di intervenire. Ma oltre a tutto quanto menzionato, in termini degli ostacoli alla modernizzazione, c’è il danno provocato dalla politica di Trump e dalla sua persistente minaccia di rimettere tutto in discussione, con effetti destabilizzanti sull’economia e gli investitori.
In che senso?
Le sue politiche hanno impedito all’Iran di raccogliere i frutti dell’accordo sul nucleare, tra i cui vantaggi c’era appunto la fine delle sanzioni. L’accordo ha, per esempio, permesso al paese di esportare petrolio in Europa. Poi, in teoria, si è aperta la possibilità di investimenti stranieri per rimodernare l’industria e le infrastrutture. Tutto questo ha alzato le aspettative della popolazione in termini di una vita migliore.
Ma allora perché tutto questo non ha funzionato?
Perché l’accordo non ha rimosso altre sanzioni contro l’Iran tuttora in vigore negli USA, e queste hanno conseguenze sulle banche anche europee, che temono di rischiare a loro volta pesanti multe se finanziano attività economiche in Iran.
Questa problematica coinvolge anche l’Italia?
L’Italia ha ingenti piani d’investimento in Iran, per esempio nel campo ferroviario, nell’ammodernamento dell’industria e nel petrolchimico, però non può procedere perché le banche (…) non offrono supporto. Quindi, in pratica, esiste tuttora il blocco che impedisce di operare delle normali transazioni con l’Iran. Ma c’è qualcosa di più.
Cosa?
A novembre c’è stato un incontro del Gruppo professionale Ambrosetti a Roma, al quale hanno partecipato molti imprenditori sia italiani che iraniani. Come scrivo nel mio libro, però, gli imprenditori italiani hanno ricevuto delle lettere che potremmo definire quasi minatorie da parte di un’organizzazione americana che li diffidava dall’investire in Iran. Quasi una forma di terrorismo psicologico.
Ma l’Europa non potrebbe fare qualcosa per rimediare a tale impasse?
In primo luogo sta facendo degli sforzi per impedire che Trump esca dall’accordo sul nucleare, perché questo potrebbe avere degli effetti catastrofici. Finora, purtroppo, sia a Macron che alla Merkel il tentativo di dissuadere Trump è andato a buca.
Rimangono comunque Russia e Cina in qualche modo piuttosto vicini all’Iran.
Beh, oltre a sedere nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, anche questi due paesi sono firmatari dell’accordo ed entrambi si sono espressi contro l’iniziativa di Trump.
Nel suo libro ha menzionato la fuga dei cervelli dall’Iran.
Nel paese ci sono moltissimi giovani assai qualificati, molte donne con laurea anche in ingegneria, ma che non hanno prospettive di lavoro. Quindi è subentrata una forma di grande sfiducia, che si esprime in molte voci tra quelle che ho raccolto.
Rimane poi la posizione delle donne in Iran. Recente è la notizia che cinque donne iraniane si sono dovute travestire da uomini, con tanto di barba e baffi, per poter andare allo stadio. Cosa si può dire su questo tema?
In Italia fanno sempre notizia le limitazioni imposte alle donne in Iran, e questo è sacrosanto. Una hojjatoleslam donna da me intervistata, cioè una studiosa quasi al vertice del ‘clero’ sciita, ha sostenuto, a proposito dell’obbligo del velo, che questo dovrebbe dipendere da una scelta personale e non da una legge, ma che è difficile per la Repubblica islamica tornare ora sui propri passi. In questo campo, come anche per ciò che riguarda il divieto di andare allo stadio, vi è un dibattito molto acceso anche nella politica e nel ‘clero’.
Ci sono comunque molte donne colte in Iran.
Sì, ed infatti è interessante quello che mi ha detto una sociologa iraniana: le donne nel suo paese hanno raggiunto un tale livello di cultura e di empowerment che spesso non riescono a trovare l’uomo giusto, cioè al loro livello. Rimane poi il problema che, in generale, nonostante la loro istruzione, le donne non riescono a raggiungere le cariche più alte. E questo, come in altre parti del mondo, non è dovuto a dei divieti, ma ad un ‘tetto di cristallo’ che incontrano anche tante donne occidentali.
Ma ci sono donne nella politica?
Ci sono, anche se in numero limitato: sia nel primo che secondo governo Rohani si contano ministri o vicepresidenti donne. Rimane il fatto che queste raramente hanno delle posizioni chiave. Ma le donne iraniane sono in genere forti e determinate: sono in molti a pensare che siano proprio loro quelle più in grado di trainare il cambiamento.