Negli scorsi giorni l’attenzione dei media si è concentrata molto su alcuni fenomeni di bullismo nelle scuole italiane. Oltre agli episodi che hanno visto come vittime ragazzi che hanno subito la vessazione e la violenza da parte di compagni di scuola, ha colpito l’attenzione, a Lucca, il pesante attacco subito da un insegnante in un Istituto Tecnico, al quale è seguita una punizione a base di bocciature e sospensioni.
Una premessa importante di fronte a questo fenomeno è che il bullismo, per sé, è un fenomeno molto antico, e non limitato solo alle scuole, visto che lo si può riscontrare anche sul posto di lavoro (dove viene però chiamato mobbing) e, naturalmente nelle forze armate (il famoso nonnismo). A tutto questo verrebbe da aggiungere tutta la serie di molestie sessuali che hanno recentemente dato via ad una reazione molto incisiva attraverso il movimento #metoo. E naturalmente, oggigiorno il bullismo ha acquisito una nuova dimensione grazie alla diffusione di internet: il cyberbullismo, che come sappiamo, ha già mietuto una serie di vittime che si sono suicidate.
Ciò che accomuna tutti questi fenomeni è fondamentalmente una forma di prevaricazione che può essere fisica, ma anche semplicemente psicologica, laddove il cosiddetto bullo si ritiene autorizzato ad esprimere, senza particolari sensi di colpa, la propria aggressività nel senso negativo, visto che l’aggressività, di per sé, può essere anche positiva, nel senso di progresso e di crscita. Non dimentichiamo la sua etimologia latina: ad gradior, ossia “camminare in avanti”.
Come in tutti i fenomeni sociali e psicologi negativi, al di là dello choc mediatico e delle soluzioni repressive del momento, è cruciale capirne l’origine, in modo da poterli curare e risolvere, magari con un lavoro di prevenzione, al quale, in particolare nelle scuole, per ciò che riguarda il bullismo, sono chiamati in causa le famiglie, ma anche il corpo insegnante.
In questa direzione si è mosso da tempo il Centro Studi Hansel e Gretel a Moncalieri (vicino a Torino), una Onlus che si concentra sul benessere psicologico dei bambini, grazie a un progetto che si concentra proprio sulla prevenzione e la cura del bullismo, porgendo una particolare attenzione alla cosiddetta “intelligenza emotiva”, sia dei perpetratori del bullismo che delle vittime.
Parla del bullismo a YOUng Claudio Foti, psicologo e direttore del Centro Hansel e Gretel.
L’INTERVISTA:
Le recenti statistiche parlano di un inquietante aumento del bullismo nelle scuole in Italia.
In realtà ricerche serie ed approfondite sul fenomeno non ce ne sono, e sono anche difficili da portare a termine.
Perché?
Perché i parametri non sono semplici. Io credo che la sopraffazione e la violenza del più forte sul più debole fra i coetanei nella scuola sia un fenomeno vecchio come il mondo, e spesso si consumava in un contesto di disattenzione e di silenzio.
Ma c’è quindi qualcosa di nuovo?
Per certi versi alcuni fattori della società contemporanea, della società mediatica, certamente soffiano sul fuoco.
Per non parlare poi del fenomeno del cyberbullismo, con tutti i suoi esiti pericolosi.
Assolutamente sì: diciamo che la rete, con la sua ambivalenza, fornisce uno strumento col quale colpire un coetaneo aumentando le potenzialità di aggressione.
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In che modo, specificatamente?
Questo nuovo mezzo sollecita l’oggettivazione, nel senso che io posso appropriarmi dell’immagine dell’altro, posso mettermelo in tasca, e, attraverso la rete, procurarmi un pubblico. Si tratta di un esponente geometrico che aumenta la potenzialità della violenza.
Esiste una teoria secondo la quale il bullo è in realtà uno che ha sofferto di varie forme di sopraffazione in famiglia, ed a sua volta si rifà con chi è più debole di lui a scuola. E’ questa la teoria più accettata?
Beh, c’è una ricerca molto qualificata che risale al 2003, portata avanti da una psicologa e criminologa, Anna Costanza Baldry, secondo la quale il 61% dei bambini vittime di violenza domestica a sua volta poi diventano bulli attivi.
C’è anche però un’altra teoria che descrive i bulli come individui in realtà molto sicuri di sé, senza problemi in famiglia e che vogliono solo esibire la propria sicurezza.
Assolutamente vero: entrambi le teorie sono fondate, e penso vadano integrate. Si può parlare di un fenomeno di rovesciamento, per cui certi individui che magari soffrono semplicemente di solitudine e d’impotenza, trasformano tutto questo in un atteggiamento di onnipotenza, e comunque di strafottenza e di arroganza. In pratica la debolezza si trasforma in forza esasperata.
In entrambe i casi è quindi importante che la famiglia intervenga, come anche la scuola, visto che questo è l’humus nel quale tali comportamenti vengono apertamente esibiti.
La società in generale, la famiglia e la scuola sono componenti che possono intervenire in questo fenomeno, con le loro individuali responsabilità. Il problema è talmente complesso che l’efficacia delle risposte è direttamente proporzionale alla convergenza di queste componenti che si riesce ad attivare.
E cosa dire sull’episodio di bullismo nella scuola di Lucca, laddove la vittima non è stato il solito coetaneo debole bensì, addirittura, un professore? Questo sembra aggiungere una nuova inusitata dimensione alla problematica del bullismo.
Questo è chiaramente il prolungarsi di un atteggiamento di arroganza, di rifiuto del principio di realtà, di rifiuto delle regole, nell’ambito della crisi dei modelli di autorità. Questo episodio, come altri, dimostra come il bullismo, inteso come sopraffazione di un coetaneo, possa estendersi e colpire altri soggetti.
La reazione immediata delle autorità scolastiche è stata di tipo punitivo nei confronti degli autori dell’aggressione. Non potrebbe forse intervenire anche una qualche forma di sana psicoterapia?
Chiaramente le situazioni estreme, che configurano una fattispecie di reato, devono essere contenute dalle autorità scolastiche, ed anche giudiziarie. Ma al di là di queste forme estreme, esiste nelle scuole un bullismo diffuso e quotidiano che genera umiliazione, malessere ed un clima di minaccia, antitetico a quello necessario per crescere. Il contenimento è importante, ma non avendo gli insegnanti specifiche competenze emotive-relazionali, oltre a quelle puramente didattiche, essi non sono in grado di affrontare il disagio presente nelle classi, che poi magari si trasforma, attraverso il rovesciamento, in bullismo. E questo li porta a rifugiarsi spesso in un laissez-faire, e quando poi di fronte a situazioni estreme, ad un reato, c’è tutto un atteggiamento di dimissione di responsabilità.
Sta quindi, in qualche modo, colpevolizzando gli insegnanti?
No: spesso gli insegnanti sono abbandonati, e non sono sostenuti da una preparazione adeguata.
Lei parla di laissez-faire da parte degli insegnanti, ma c’è anche un inquietante laissez-faire tra gli alunni, il cosiddetto pubblico passivo, che quasi gode dei fenomeni di bullismo.
Certo, e questa è l’interiorizzazione del fenomeno sociale diffuso dell’indifferenza, della non affettività, il laissez-faire del testimone irresponsabile, collusivo con l’azione del bullo.
Quindi, alla fin fine, quale dovrebbe essere il ruolo della scuola in questo contesto?
Noi, al Centro Studi Hansel e Gretel, proponiamo una metodologia che si basa sui principi dell’intelligenza emotiva.
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Ossia?
Abbiamo scoperto che è importante portarli ad esprimere le proprie emozioni attraverso la parola, proprio perché il bullismo nasce dal fatto che le emozioni si trasformano facilmente in azioni.
Un esempio concreto?
Io ragazzo, sono arrabbiato perché in famiglia ho le mie frustrazioni, ma me le tengo dentro senza esprimerle. Questo tipo di attitudine può poi sfociare in un improvviso scatto di nervi, in azioni aggressive. Se la rabbia si esprime invece attraverso la comunicazione, attraverso la quale uno può dire perché è arrabbiato, essa in qualche modo si stempera, ed il pericolo di reazioni impulsive diminuisce.
In pratica come può funzionare questa metodologia che voi proponete?
Se noi nelle classi creiamo un clima in cui insegniamo ai ragazzi a comunicare – e nella nostra esperienza vediamo che molti non lo sanno fare – ad esprimere con chiarezza e con forza le proprie emozioni, lasciando all’altro la possibilità di fare altrettanto, i potenziali conflitti smettono di assumere un carattere impulsivo e quindi pericoloso. Abbiamo quindi elaborato tutta una serie di strumenti che permettono agli studenti di applicare questo processo, distinguendo tra la rabbia comunicata e la rabbia espressa attraverso azioni.
E’ stato fatto notare la differenza tra il bullismo maschile, tendenzialmente fisico, e quello femminile, più sottile e tendenzialmente psicologico, attraverso atteggiamenti di esclusione.
Anche in questo caso esiste certamente un quid di violenza, anche se perpetrata grazie al ripetuto attacco dell’immagine della vittima, spesso con la messa in circolo di informazioni lesive e profondamente distorte sul suo conto.
E che dire della passività che si nota spesso nelle vittime del bullismo e che spesso le porta alla depressione o addirittura al suicidio?
Spesso l’incapacità a reagire da parte della vittima è dovuta al fatto che i rapporti di forza non glielo consentono. A volte noi, con il nostro sguardo adulto-centrico, facciamo fatica a capire quest’attitudine, perché non capiamo che la vittima è tremendamente sola e fa fatica ad essere presa sul serio, magari dagli stessi genitori. Comunque, in generale, ci sono da fare due considerazioni importanti sulle vittime.
Quali?
La vittima non è mai scelta a caso: è scelta tra i bambini più fragili, quelli abituati a sottostare a rapporti di sottomissione. Poi, la ricerca della Baldry di cui parlavo, ha scoperto che il 71% dei bambini che a scuola sono vittime di bullismo subiscono violenza in famiglia.
Ma oggigiorno, la diffusione a livello sociale e politico di modelli autoritari come anche xenofobi e razzisti – basti pensare a Trump & Co. – magari anche nella stessa famiglia, non influenza in qualche modo il carattere del bullismo?
Certo, ci sono vari tipi di fragilità: i bambini che esibiscono fragilità non emotiva, ma magari semplicemente economica o etnica, possono diventare oggi facile bersaglio del bullismo. In tutto questo c’è un contributo dei modelli sociali, un contributo della scuola che pensa all’istruzione, ma non ha strumenti per fare educazione, e un contributo della famiglia. Fare una classifica di chi è più meno colpevole è rischioso.
Ma che dire dei politici in particolare?
Certi politici possono influire, ma sono a loro volta il prodotto di un cambiamento della cultura sociale, del fatto che, nelle famiglie, si è affermata spesso l’illusione di risolvere i problemi con la scorciatoia della violenza, del mostrare i muscoli, del mostrarsi più forti o magari più ricchi, a scapito del dialogo e della comprensione. Viviamo in una società dove la simpatia non va a chi è più debole, ma a chi è più forte e vincente.
Cosa può fare la famiglia?
Uscire dall’affermazione, che abbiamo notato in un caso specifico – quello di una ragazza costretta a spogliarsi pubblicamente in un gioco organizzato da un gruppo di “bravi ragazzi” – ma non solo, di tre principi: il poter fare quello che si vuole in base ai propri obiettivi, secondo un atteggiamento fondamentalmente consumistico; la mancanza di regole morali, a favore di un’autosufficienza delle regole; la negazione della gravità dell’episodio. La cosa più sorprendente, oltre alla tendenza a minimizzare comunque l’evento, è che tali principi venivano applicati non solo dai ragazzi, ma da molti dei genitori stessi, che dicevano: “In fondo questi ragazzi si sono solo divertiti”. Questo ci fa capire l’humus sociale e culturale dal quale certe forme di bullismo diffuso, anche se non necessariamente estremo, nascono.
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