Abituiamoci, con la presidenza Trump, ogni giorno ce n’è una nuova: l’ultimissima, nell’ormai lunga serie, è la declassificazione di un memo – notare: di meno di quattro pagine – che si pensa accusi l’FBI di abuso di potere nelle investigazioni sul controverso Russiagate. Questa iniziativa ha aperto la strada alla sua pubblicazione da parte del Congresso, che, con l’ovvio supporto repubblicano, l’ha immediatamente pubblicato.
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Sembra chiaro che un Trump, patologicamente ossessionato con la propria immagine, e tuttora tormentato dall’ombra di Robert Mueller, il procuratore speciale incaricato ufficialmente d’indagare sulle presunte collusioni con la Russia di Putin, le prova tutte per evitare un eventuale impeachment, e in ogni caso per compensare l’inevitabile discredito nei suoi confronti, qualora le indagini dovessero condurre ad inquietanti conclusioni. Al tempo stesso i repubblicani nel Congresso, seppur parzialmente divisi nel loro appoggio al loro presidente, nel complesso sembrano pronti ad offrirgli ogni assist possibile per tenerlo al suo posto.
Gli stessi repubblicani che qualche giorno fa hanno mostrato all’unanimità il loro appoggio a The Donald durante il suo “grande momento”: il discorso dello Stato dell’Unione di fronte al Congresso, durato 1 ora e 20 minuti. Un’occasione per difendere e propagandare la politica del proprio governo, a cui si aggiunge il tentativo, di unificare gli USA, un paese che lui stesso ha contribuito, in tanti modi, a spaccare.
Chiaramente l’evento ha avuto i suoi aspetti comici – con Trump c’è, dopo tutto, sempre da ridere, oltre che piangere. E infatti i vari show televisivi improntati alla satira anti-Trump si sono scatenati subito dopo.
Ci sono stati i continui applausi dell’ala repubblicana nel Congresso, con i legislatori che si alzavano in piedi ogni cinque minuti, mentre i democratici, tranne in qualche rarissima eccezione, se ne stavano seduti immobili e con le facce lunghe. Lo stesso hanno fatto i rappresentanti afro-americani democratici, quando The Donald ha sparato le sue statistiche sull’abbassamento della disoccupazione dei cittadini di colore.
Nel frattempo, è stato fatto notare, la First Lady Melania, oltre ad applaudire meccanicamente, sembrava guardare lontano nel vuoto – non esattamente ipnotizzata dall’incessante retorica del marito. Si è un po’ scaldata solo quando Trump ha elogiato pubblicamente un bambino, piccolo grande patriota californiano, seduto accanto a lei, per aver distribuito delle bandiere a stelle e strisce sulle tombe dei caduti in guerra.
Ma al di là dei momenti comici – la lista è ben più lunga degli esempi sopra esposti – si è notato da parte di Trump un tentativo di unificare inneggiando la grandezza del paese che rappresenta, scegliendo al tempo stesso una retorica relativamente più moderata, non molto dissimile da quella improntata alla “carineria” in occasione della sua partecipazione al recente forum sull’economia mondiale di Davos, in Svizzera.
La moderazione (relativa) scelta da Trump nel suo discorso – si presume scritto da Stephen Miller, lo speechwriter che dopo l’uscita di Steve Bannon dal suo cerchio magico è diventata una delle voci più ascoltate dal presidente – potrebbe spiegarsi non tanto come un tentativo per convincere i nemici democratici, ma piuttosto per consolidare l’appoggio di un Partito Repubblicano anch’esso diviso dopo la sua entrata in campo, a causa di non poche posizioni considerate estreme dai suoi stessi compagni di viaggio.
A parte la solita retorica patriotica condita dal refrain “America first”, Trump nel suo discorso ha esaltato i supposti successi economico/finanziari/sociali della sua amministrazione, il suo unico vero “successo” legislativo, ossia la recente riforma fiscale, e naturalmente le sue nuove iniziative nel campo della politica ambientale e dell’immigrazione, cadendo comunque in una serie di inesattezze e mezze-verità.
Last but not least, in termini di politica estera, Trump ha, prevedibilmente, puntato il dito contro i soliti “stati canaglia” – Corea del Nord e Iran – e ha reiterato lo spirito competitivo nei confronti di Cina e Russia. Infine, in questo delicato contesto, ha promesso un ulteriore passo avanti verso un serio riarmo USA.
E infatti il Pentagono ha appena delineato e diffuso la nuova strategia USA sulle armi nucleari, sottolineando un focus su Russia e Cina. Donald Trump afferma che la ‘dottrina’ delineata “affonda le sue radici in una valutazione realistica sulla sicurezza globale, nella necessità di avere un deterrente verso l’uso delle armi più distruttive del mondo e nell’impegno da parte del nostro paese alla non proliferazione nucleare”.
Notare che nel suo discorso Trump aveva detto che lui vorrebbe tanto si giungesse alla totale denuclearizzazione globale, concedendo al tempo stesso che, per ora, è un sogno.
Dopo tutto, per ora, basta tenere in piedi il “sogno americano”, visto che ha sottolineato come tutti i suoi amati compatrioti sono dei dreamers dei sognatori. Da non confondere con i Dreamers, ossia i figli di immigrati nati nel paese.
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Mentre i democratici hanno poi scelto come principale portavoce per rispondere al discorso trumpiano un personaggio establishmen-style come Joseph Kennedy III, Bernie Sanders ha diffuso un video visto da milioni di persone, nel quale ha dettagliatamente smontato la retorica presidenziale, concentrandosi sulle ingiustizie permanenti nel paese per quanto riguarda distribuzione del reddito, sanità, ambiente ed immigrazione. Ha concluso la sua analisi con una nota positiva sul crescente sforzo a livello di base e territoriale per superare l’impasse della presidenza Trump e dare una svolta progressista al paese.
Parla di tutto questo a YOUng Riccardo Alcaro, esperto sugli USA presso l’IAI (Istituto Affari Internazionali) di Roma.
(Per chi volesse dilettarsi con un po’ di satira, ecco un piccolo menù di video di show americani sugli ultimi exploit di The Donald – e, infine, per chi volesse approfondire, il video di risposta diffuso da Bernie Sanders)
L’INTERVISTA:
Che dire sulla recente pubblicazione del memo anti-FBI?
La modalità in cui questo memo è stato prima compilato e poi pubblicato, la persona che lo ha fatto, e il contesto in cui ciò è avvenuto, nonché le accuse contenute nel memo stesso, tutto mi fa pensare a una volgare operazione politica di parte.
In che senso?
Mi colpisce appunto la modalità: questo è un memo messo insieme da dei repubblicani, membri della commissione intelligence della Camera che in tre pagine e mezzo fa una serie di considerazioni di dubbia veridicità. Notare che non è stato originariamente condiviso né con il Dipartimento di Giustizia, né con l’FBI, né coi senatori della commissione senato dell’intelligence, mentre ora viene pubblicato, dopo un semplice esame di controllo da parte della Casa Bianca.
E volendo guardare a questo episodio nel contesto generale delle indagini su Trump?
Il contesto è quello del Russiagate, nonostante David Nunes, il rappresentante repubblicano principale firmatario del memo, affermi che questo non abbia nulla a che fare con l’indagine di Mueller. L’accusa del memo parla di un tentativo all’interno dell’FBI di raccogliere materiale la cui origine sarebbe un rapporto di un ex-agente inglese finanziato da una campagna della Clinton e sulla quale poi si baserebbe l’intero scandalo Russiagate.
A quanto pare l’accusa coinvolgerebbe anche il Vice Segretario alla Giustizia Rosenstein.
Sì, costui viene accusato di condotta inappropriata. Notare: Rosenstein è proprio quello che ha suggerito Mueller come procuratore speciale per l’indagine ed è a lui che Mueller risponde. Tutti sanno che Trump non ama Rosenstein e che vorrebbe licenziarlo per sostituirlo con qualcuno di suo gradimento.
Il contenuto più specifico di questa accusa contro l’FBI?
Essa sostiene che l’FBI avrebbe volontariamente mentito, o quanto meno omesso, delle informazioni fornite alla commissione per l’intelligence, creando in pratica il caso Russiagate, e basandosi a sua volta sul famoso rapporto dell’agente britannico Steele, che lavorava per una compagnia di consulenza incaricata prima da un avversario repubblicano di Trump, e poi dalla campagna della Clinton, allo scopo di raccogliere materiale compromettente sul futuro presidente, ma non certamente di fabbricarlo.
Reggono queste affermazioni contenute nel memo?
In realtà nessuna di esse sta in piedi, tanto che l’FBI ha preso il passo senza precedenti, o quasi, di criticare aspramente l’idea di rendere pubblico il memo, dicendo esplicitamente che esso contiene affermazioni esposte in maniera tanto strumentale da renderlo fuorviante, se non addirittura mendace.
A proposito del discorso sullo Stato dell’Unione, Trump ha puntato molto su un atteggiamento di unificazione del paese, mentre sappiamo che, a livello di sondaggi non è molto apprezzato da buona parte della nazione.
Rimane vero che Trump a un anno di distanza dal suo insediamento alla Casa Bianca ha un tasso di popolarità abbastanza negativo, ma in realtà non lo è come si vuol far pensare. Stiamo parlando del 40% di approvazione fin dai primi mesi della presidenza. In pratica, le incessanti polemiche nei suoi confronti, non hanno scalfito la sua base allargata.
Ti riferisci forse allo zoccolo duro che lo sostiene?
No, della sua base allargata, che va al di là dello zoccolo duro, che non supererà il 30%. La base allargata è costituita da persone alle quali Trump non piace, ma che continuano a sostenerlo.
Perché lo sostengono?
Più che altro per un rifiuto di quello che c’è dall’altra parte. In particolare, la posizione trumpiana sull’immigrazione riesce a tenere insieme questa base allargata, fortemente anti-immigrazione. Se si aggiunge a questo il fatto che l’economia va bene, possiamo dire che parlare di un fallimento della presidenza Trump sia probabilmente prematuro.
Infatti nel suo discorso, improntato molto sull’auto-apprezzamento, ha subito sparato i dati sull’economia.
Beh, Trump è un maestro del millantato credito. In realtà le sue politiche hanno poco a che fare con questi dati. L’economia ha seguito il suo corso sulla scia delle politiche macroeconomiche e fiscali avviate dalla precedente amministrazione, e dalla Federal Reserve.
Trump però si vanta molto della sua riforma fiscale.
Sì, ma questo è stato in realtà un gigantesco regalo fatto alle corporation. Senza dimenticare che la riforma fiscale è stata varata a dicembre, e quindi è ancora un po’ presto dire se avrà un riverbero positivo sull’economia. D’altra parte, se in questo suo millantato credito Trump è speciale, al tempo stesso non si differenzia troppo da altri politici che puntano sull’evidenziare i dati positivi a loro vantaggio. Chiaramente lui lo fa in maniera spudorata, quasi volgare.
Cosa dire sul messaggio patriottico volto all’unità che ha caratterizzato il suo discorso?
Si tratta di un messaggio molto particolare, tutto impregnato di un fortissimo ed aggressivo nazionalismo. Specificatamente si è concentrato su tre temi.
Quali?
L’individuo contro il governo: non l’ha espresso in maniera esplicita, ma il portare come esempi tutta una serie di eroi singoli, che siano poliziotti, soldati o pompieri dice molto. L’individuo è superiore allo “stato corrotto”. Questo individuo sarebbe poi l’incarnazione dello stesso Trump, come esempio, appunto, di uomo fatto da sé. A questo si aggiunge un altro doppio messaggio: l’America deve vincere contro un nemico, sia interno che interno. Quello interno sarebbe poi l’immigrazione, sulla quale ha portato un esempio eloquente, almeno nella sua visione.
Che sarebbe?
Quello delle vittime della gang MS-13 (ndr. gang nata a Los Angeles negli anni ’80 e poi diffusasi in tutto il paese, e costituita soprattutto da membri di origine centro-americana e in particolare di El Salvador), rappresentata come una minaccia interna.
Si tratta di una classica strumentalizzazione populista.
Totale… E poi lo stesso discorso viene applicato alla politica estera: l’America è circondata da nemici come la Corea del Nord, visto come “paese di pazzi” e l’Iran, bollato come “stato canaglia”. Rispetto al predecessore repubblicano George W. Bush, che aveva sì una visione imperiale, però sempre agganciata all’esportazione del modello americano – seppur usato strumentalmente – basato su valori come democrazia, diritti umani, liberalismo economico, con Trump non c’è nessun accenno all’eccezionalità americana.
Come si differenzia quindi Trump?
Il messaggio è questo: noi siamo in un’arena nella quale tutti competono con noi, ma mentre i miei predecessori vi hanno tradito e non hanno saputo fare i vostri interessi, io difenderò il paese sia contro i nemici interni – gli immigrati – che quelli esterni, ossia i “paesi canaglia” nonché quel grandissimo rivale, senz’altro a livello commerciale, che è la Cina.
Infatti è stato osservato che Trump nel suo discorso ha usato la parola “forte”, ma anche “forza”. ben 31 volte.
Certo, e non dimentichiamo che, a livello storico, i leader forti e autoritari si sono affermati invocando un’unità contro un nemico sia interno che esterno. Al tempo stesso questa impostazione legittima le divisioni, perché chi non è unito non è parte del tutto, non è un “buon americano”.
E’ stato osservato che nella sua partecipazione al forum di Davos, Trump ha cercato di fare il “carino” con la comunità neo-liberale globalista, pur propugnando la politica di tariffe commerciali protettive. Non c’è un po’ di ambiguità in questo?
Beh, in realtà Trump è molto più vicino a questo tipo di comunità che alle persone che dice di voler difendere. In teoria la sua posizione è comunque non contraria alla libera competizione, ma a quella competizione che lui considera “scorretta”. Una linea comune sia alla destra che alla sinistra, e che si prefigge di proteggere la classe media e quella lavoratrice. Ritorna con Trump un’impostazione mercantilista, laddove un deficit commerciale è una perdita, mentre un surplus è un vantaggio. E questo vale non solo nei confronti di paesi meno sviluppati, che vendono prodotti a un prezzo più basso, ma anche di paesi sviluppati come può essere la Germania, che lui vede come una minaccia. Tra l’altro questa è una visione che porta avanti da 30 anni, come un articolo apparso sul New York Times nel 1987 testimonia.
Colpisce, nella risposta di Bernie Sanders, un’osservazione sul piano di investimenti nelle infrastrutture, specificatamente sulla rete stradale obsoleta, menzionato nel discorso di Trump. A quanto pare non sarebbe lo stato ad intervenire, un po’ come nella tradizione roosveltiana del New Deal, bensì le aziende private, che poi potrebbero rifarsi con l’applicazione di tariffe.
Chiaramente nella politica di Trump è più forte la presenza privata rispetto a quella governativa. Ma oltre a ciò, Sanders ha marcato un’area potenzialmente vulnerabile della politica trumpiana: questa riforma fiscale che Trump ha introdotto, come le nomine in certe posizioni chiave del suo gabinetto, stanno a dimostrare che tutto quello che lui ha fatto è a favore dei ricchi.
Quindi questo potrebbe rivelarsi come un boomerang contro quel Trump che dice di voler difendere le classi basse della società USA?
Sì, questo potrebbe rivelarsi un problema per Trump.