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Trump e il boicottaggio della pace nel Medio-Oriente

Postato il Dicembre 8, 2017 Attilio De Alberi 0

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Se l’obiettivo, come ripetutamente dichiarato, di Donald Trump nell’annunciare lo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, con l’implicito riconoscimento della città come capitale dello Stato d’Israele, è quello di facilitare il processo di pace nel Medio Oriente, e in particolare quello tra israeliani e palestinesi, sembra in realtà aver ottenuto l’effetto opposto.

Naturalmente Bibi, ossia Netanyhau, il Primo Ministro d’Israele ha esultato e ha dichiarato di esser convinto che la decisione dell’amico Donald verrà seguita presto da altri stati.

In realtà, finora (e non è un caso), solo il neo-Primo Ministro della Repubblica Ceca Andrej Babis, il miliardario noto anche come il Trump ceco, si è espresso in questa direzione. In Italia, non sorprendentemente, solo Salvini ha brindato alla decisione trumpiana: per lui Gerusalemme e Israele sono un baluardo contro l’Islam. Il resto dell’Europa, ha cominciare dalla Mogherini, e passando per la Merkel, non sembra essere troppo entusiasta, e perfino il neo-Primo Ministro della Repubblica Ceca Andrej Babis, il miliardario noto anche come il Trump ceco, ha bloccato l’annuncio originario e favorevole all’annuncio di Trump del presidente Miloš Zeman, mentre sia i cinesi che i russi sono preoccupati.

E i motivi di preoccupazione non son pochi. A parte le immediate dimostrazioni nei territori palestinesi con il primo morto e le centinaia di feriti, a parte le bandiere americane bruciate sulle strade, e le immagini di Trump cancellate con la vernice nera, a parte le dichiarazioni di Hamas che chiama all’ennesima intifada, per poi non parlare le promesse di violenza da parte di al-Qaeda e dell’ISIS, l’intero mondo arabo è in subbuglio e in uno stato d’indignazione, a cominciare da Erdogan – il primo a reagire molto negativamente, pur essendo la Turchia parte della NATO – per poi passare al re di Giordania, al vicino Egitto e arrivare agli stati del golfo. Nemmeno l’Arabia Saudita, notoriamente “vicina” ad Israele, sembra essere troppo entusiasta.

Discute di questo con YOUng Jordan Elgrably, giornalista e scrittore ebreo sefardita, nato in Francia, creatore a Los Angeles di The Markaz, Arts Center for the Greater Middle East, un centro culturale con l’obiettivo di favorire, attraverso le arti e la cultura, un senso di convivenza pacifica tra le comunità mediorientali. Secondo lui la situazione dei Palestinesi, soprattutto nei territori occupati, è peggiore dell’apartheid.

Trump-Medio_Oriente-2

L’INTERVISTA:

La tua prima reazione alla dichiarazione di Trump?

Premessa: per me e altri come me, parte del movimento di solidarietà nei confronti dei palestinesi, l’attuale processo di pace tra Israele e Palestinesi è una finta. L’uscita di Trump getta una bomba su questa finzione.

Quindi stai dicendo che questa novità è positiva nel senso che mette fine a quella che in fondo è un’ipocrisia?

Purtroppo non è uno sviluppo positivo perché sta facendo arrabbiare molte persone e si può prevedere un crescente attacco agli USA e ai suoi simboli e istituzioni nel Medio Oriente.

E’ ora prevedibile una nuova intifada?

Non mi sorprenderebbe affatto: il processo delle cosiddette intifada (ndr dall’arabo ‘intervento’ ‘sussulto’) è ciclico. Mi viene a mente, in questo contesto di Gerusalemme, la seconda, nel settembre del 2000, quando l’allora capo dell’opposizione israeliana Ariel Sharon, entrò nel complesso della Spianata delle Moschee.

Come vedi la posizione d’Israele in tutto questo?

Israele è ormai ubriaca di potere e sta lasciando da parte qualsiasi forma di cautela: va avanti per la sua strada anche se la maggior parte del mondo non riconosce la legalità delle occupazioni in Cisgiordania.

L’iniziativa di Trump è una delle sue promesse elettorali, e a quanto pare ha dalla sua parte la destra evangelica USA.

Certo e, magari esagerando, se questa iniziativa porta a una guerra e a un’Apocalisse, per certi evangelisti sfegatati, questo sarebbe uno sviluppo positivo.

A questo proposito, secondo certi osservatori, l’inizio di una guerra farebbe comodo a Trump, perché distrarrebbe l’opinione pubblica da tutti i guai che sta attraversando.

Beh, se il rischio che deve affrontare è quello dell’impeachment, una guerra gli farebbe senz’altro comodo.

Ma, per ritornare a Gerusalemme, questa città non è solo un simbolo per la religione ebraica, ma per le altre due grandi religioni monoteiste: quella cristiana e quella islamica.

L’aspetto religioso può avere la sua importanza, ma, a parte la giustificazione israeliana di voler difendere certi monumenti sacri, c’è il rifiuto politico di voler ammettere Gerusalemme come capitale anche per i Palestinesi.

Quindi tutto è da ricondurre alla guerra del 1967 che portò all’occupazione della Cisgiordania.

Esatto: questo è il punto chiave.

A parte l’ovvia reazione palestinese, Trump si sta facendo dei nemici tra alleati come la Turchia e l’Islam moderato rappresentato dall’Arabia Saudita.

Andrei un po’ più cauto sulla posizione dell’Arabia Saudita, vista l’ormai ovvia collusione di questo paese sia con gli USA che con Israele in funzione anti-Iran. Per i sauditi, a livello simbolico, la Mecca e Medina sono più importanti di Gerusalemme.

A proposito del processo di pace, quando Trump incontrò il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Abu Mazen a Washington, promise di portare avanti il processo di pace. Si dice che questo sia stato fatto a porte chiuse dal genero Jared Kushner.

In realtà né a Trump né a Kushner importa molto la questione palestinese e Kushner, grazie alle investigazioni di Mueller, potrebbe finire in carcere per tutte le bugie relative al Russiagate, com’è finito in carcere suo padre, per evasione fiscale.

L’iniziativa di Trump sembra aver diviso la comunità ebrea negli USA, con gli ebrei liberali di sinistra chiaramente contrari.

Beh, gli ebrei di sinistra negli USA sono contrari all’occupazione, e, in generale, più di metà degli ebrei americani lo sono. Chiaramente la destra ortodossa e, ovviamente, l’AIPAC (ndr American Israel Public Affairs Committee, la lobby americana nota per il forte sostegno allo Stato di Israele) la pensano diversamente. Senza dimenticare il supporto all’attuale posizione israeliana di miliardari ebrei come Sheldon Adelson, Haim Saban.

Uno può prendersela con Trump quanto vuole, ma obiettivamente, in otto anni di presidenza non è che Obama abbia fatto più di tanto per il processo di pace, indipendentemente dalla sua famosa dichiarazione pro-palestinese all’Università del Cairo.

Mettiamola in questi termini: da quando l’aviazione israeliana attaccò la nave-spia U.S.S. Liberty nel giugno del 1967, uccidendo più di 30 marinai americani e ferendone più di 100, e Johnson decise di spazzare questo episodio sotto il tappeto, accettando la giustificazione del cosiddetto “errore”, Israele è stato libero di fare quel che vuole con gli USA, indipendentemente dai presidenti in carica. E poi si sa anche che ci sono molte spie che lavorano all’interno del governo americano.

Quindi fanno ormai parte del Deep State (ndr lo Stato Profondo).

Sì, sono come un cavallo di Troia.

Quindi più che mai pensi che un processo di pace sia quasi impossibile?

Temo proprio di sì: è deprimente, ma dopo l’uscita di Trump tutto sarà ancora più difficile e prevedo degli sviluppi assai negativi.

Autore

  • Attilio De Alberi
    Attilio De Alberi

    Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.

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#donald trump#Gerusalemme#Jordan Elgrably#Medio Oriente

Pubblicato da

Attilio De Alberi

Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.


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