Su una cosa Trump e i suoi “alleati” incontrati a Bruxelles e a Taormina sembrano aver trovato un comune terreno d’accordo: la necessità di sconfiggere al più presto l’ISIS. Ma, retrospettivamente, dopo il tour Medio Orientale di The Donald Trump della settimana scorsa, ci si domanda se, in realtà, sia in atto un cambiamento importante nella politica in questo cruciale e tormentato teatro politico e militare. Soprattutto rispetto alle posizioni del predecessore Obama i cui rapporti con Israele e con l’Arabia Saudita si erano, relativamente, raffreddati.
Grande scetticismo circa i cambiamenti “on the ground”, sul terreno, sembra provenire senz’altro dai palestinesi. Il commento scherzoso sulla visita di Trump a Betlemme da parte degli abitanti è stato indicativo: ”Almeno le strade sono state pulite per bene”.
Secondo Mark LeVine, ricercatore ebreo radicale e docente presso la University of California a Irvine, al di là della retorica “non si può affatto parlare di un sostanziale cambiamento”.
L’INTERVISTA:
Questa visita di Trump in Medio Oriente coincide con il 50° anniversario della fatidica Guerra dei 6 Giorni…
Più interessante di questo anniversario è il fatto che sono passati 24 anni dalla firma dagli accordi di Oslo che miravano a una soluzione del conflitto israeliano-palestinese: in realtà non solo questo conflitto rimane irrisolto, ma siamo sempre più lontani da una vera pace.
E’ stato molto pubblicizzata la dichiarazione messianica di Trump secondo il quale si raggiungerà presto la pace.
Trump è noto per fare promesse, sia come businessman che come presidente, che poi non vengono mantenute. E’ di per se inquietante vedere chi sono i suoi più fidati consiglieri sulla questione palestinese.
A chi si riferisce?
Al genero Jared Kushner e al nuovo ambasciatore in Israele David Friedman, entrambi attivi fautori della politica d’insediamenti in Cisgiordania: è la cosa più vicina all’idea di permettere a una volpe di avvicinarsi a un pollaio.
Al tempo stesso sembra esserci molta più cautela rispetto al progetto iniziale di Friedman, supportato da Trump, di spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme.
Beh, Trump se ne esce con certe idee per soddisfare il suo elettorato, ma in questo caso si è poi reso conto che questo spostamento finirebbe per generare violente reazioni.
E cosa si può dire allora sulla sua pressione verso il governo Netanyhau per rallentare il processo d’insediamento in Cisgiordania?
Bisogna vedere cosa s’intende per “pressione”: Obama ha fatto la stessa cosa, ma gli insediamenti sono andati avanti, e tuttavia lui ha continuato a vendere armi ad Israele per miliardi di dollari. Trump cerca di ottenere la stessa cosa professandosi, diversamente dal suo predecessore, come grande amico degli israeliani.
Quindi sta dicendo che sta cambiando semplicemente la retorica?
Esattamente, ma in realtà, nei fatti, non vedo neanche l’ombra di un cambiamento nella politica americana in questo contesto.
E’ stata molto pubblicizzata la visita, anche se privata, di Trump al muro del pianto, la prima di un presidente USA in carica.
Non significa nulla, e Rex Tillerson, il Segretario di Stato, ha reiterato che il Muro del Pianto non fa parte dello stato sovrano d’Israele, ma è situato, sotto la legge internazionale, in territorio occupato.
Ma questa visita è simbolicamente rilevante.
Temo che a cent’anni dalla Dichiarazione Balfour, a 50 anni dalla Guerra dei Sei Giorni e a 24 anni dai fallimentari accordi di Oslo, ormai i simboli non significano nulla.
Una cosa sembra piacere molto al governo Netanyhau, come anche al regime saudita: la ferma posizione di Trump nei confronti di una paventata minaccia iraniana.
Di nuovo, Trump fa il duro con l’Iran, ma è esclusa la possibilità che venga disfatto l’accordo con l’Iran fatto da Obama nell’ultimo periodo della sua presidenza.
Quindi cosa c’è dietro quest’altra posizione trumpiana?
The Donald sta semplicemente pompando la retorica anti-Iran per giustificare un’ingente vendita di armi – per 110 miliardi di dollari – sia ad Israele che all’Arabia Saudita, il che è ovviamente un ottimo business per il complesso industriale-militare USA.
Al tempo stesso vuole forse mostrare più muscoli della politica USA in Medio Oriente?
Fondamentalmente, Trump vuole attrarre supporto mostrando di essere un leader-guerriero, anche se questo può spesso implicare la morte di molti civili innocenti. Dal tempo dei faraoni e dei romani un leader non è un vero leader se non è anche un grande guerriero.
Questo vale soprattutto per la politica verso l’Arabia Saudita?
In questo caso si va un po’ oltre la retorica: Obama si era notevolmente raffreddato nei confronti di Riyad, mentre Trump vuole veramente rafforzare l’alleanza, dimenticando, tra l’altro, il gran numero di vittime civili nella guerra in Yemen.
E’ stato anche fatto notare il suo relativo passo indietro nella retorica anti-islamica tipica della sua campagna elettorale.
Anche qui non bisogna dimenticare gli immensi interessi d’affari del conglomerato Trump negli stati del Golfo. Tra l’altro, lo sfarzo pacchiano, che ostenta ricchezza, tipico di certe proprietà trumpiane, trova un equivalente solo in questa parte del mondo.
Ma al tempo stesso la visita di Trump in Arabia Saudita sembra rafforzare il fronte anti-ISIS, superando appunto l’ambiguità del regime verso l’estremismo islamico.
Nella visione ristretta e ignorante di Trump questo può essere stato uno degli scopi della visita, ma in realtà ci si domanda se veramente si vuole sconfiggere l’ISIS, che sotto molti punti di vista ha fatto molto comodo, e continua a farlo a molti attori nel teatro mediorientale, soprattutto in termini di frammentazione politico-territoriale. E, di nuovo, la guerra contro l’ISIS fa anche bene al business delle armi: se non esistesse, bisognerebbe inventarlo.
Sta confermando quindi la teoria che l’ISIS è anche una creazione dell’Occidente?
Certo, come lo è stato al-Qaeda.
D’altra parte, in positivo, Trump ha da poco deciso di armare direttamente i curdi del Rojava, finora i più efficaci combattenti contro l’ISIS.
Anche qui ci sono molti fattori in ballo, tra i primi il rapporto con Erdogan, un altro autocrate come lui, per cui, anche se questo appoggio ai curdi mostra una buona dose di realismo, bisognerà vedere quale sarà la posizione USA verso il Rojava, fortemente ostacolato dalla Turchia, nel lungo termine.
Quindi lei teme che dietro questa mossa ci sia essenzialmente una buona dose di opportunismo.
Certo, come di solito avviene nella politica estera USA, e in generale, in quella delle grandi potenze.
Cos’ha da dire sulla visita di Trump in Cisgiordania?
Non c’è molto da dire: è andato a visitare Abbas, un leader che ormai non è più rappresentante dei veri interessi palestinesi: una marionetta controllata da Israele e dagli USA, che lo sostengono politicamente, economicamente e militarmente, in un palese clima di quasi apartheid. Da un certo punto di vista Abbas è più pericoloso dello stesso Netanyhau.
Perché?
Almeno Netanyhau è un nemico aperto e chiaro della causa palestinese, mentre Abbas è un nemico subdolo: dovrebbe difendere il suo popolo, ma in realtà lo sta fregando. Gli israeliani continuano a uccidere palestinesi e a rubare la loro terra e Abbas non fa nulla, in realtà, per fermarli. E’ solo interessato alla sua sopravvivenza politica e ai vantaggi economici che ne derivano.
Quale fenomeno repressivo in Cisgiordania l’ha più colpita recentemente?
Solo pochi giorni fa l’esercito ha invaso e distrutto a Sarura un noto campo di pacifisti israeliani e americani ebrei, perpetrando anche atti di violenza nei loro confronti.