Non poche polemiche sono nate dall’incontro dello scorso weekend a La Valletta dove 28 leader europei si sono mostrati d’accordo nel mandare avanti un piano per bloccare l’arrivo dei migranti attraverso Libia, Tunisia e Niger.
Operativamente si tratta di dare soldi a questi paesi affinché facciano a priori il “lavoro sporco” dei respingimenti. In particolare si tratterebbe, soprattutto nel caso della Libia, di fornire aiuto tecnico e finanziario per bloccare le carrette del mare prima ancora che si avvicino a Lampedusa o alla Sicilia.
Non c’è da sorprendersi se l’analogo accordo bilaterale mandato avanti nei giorni precedenti tra il nostro premier Gentiloni e il leader libico al-Sarraj abbia intascato l’approvazione da parte dei presenti all’incontro di Malta.
Ma a parte il fatto che bisogna aspettare che il parlamento approvi lo stanziamento dei fondi per il migration compact (si parla di 40 miliardi di euro, mentre ora come ora ce ne sono solo 200 milioni), l’accordo di Malta ha sollevato dubbi da parte dell’UNHCR (ndt United Nations High Commission for Refugees), preoccupata per il tipo di trattamento potrebbero subire i migranti eventualmente riportati in terra libica dalle motovedette che andranno a pattugliare il Mediterraneo. Questa preoccupazione nasce in base alle note esperienze d’internamento a cui sono stati regolarmente sottoposti migliaia di migranti giunti in Libia negli ultimi anni.
Parla di tutto questo a YOUng Kostas Moschorichitis, direttore generale di InterSOS, la maggiore organizzazione umanitaria italiana, impegnata in molti Paesi del mondo sul problema dell’immigrazione, il quale confessa come il modo in cui si sta evolvendo il migration compact abbia destato “grande indignazione e preoccupazione per tutta la gente che si troverà nelle mani dei servizi libici”. E aggiunge: “Le critiche che l’Europa muove a Trump rivelano una profonda ipocrisia”.
Da dove nasce la vostra preoccupazione?
Dalle testimonianze dirette delle organizzazioni umanitarie che lavorano in Libia e di tutti quei migranti giunti in Italia che ci raccontano e mostrano sulla loro pelle i risultati del trattamento disumano subito nei centri di detenzione libici.
Quindi questo sarebbe un grosso passo indietro.
Sì, perché ci riporterebbe a quello che succedeva ai tempi dell’accordo tra il governo Berlusconi e il regime di Gheddafi. Questo nuovo accordo è una pura e semplice continuazione di un triste passato.
La UNHCR sembra criticare questo progetto.
Questo era prevedibile. Non siamo certo i soli ad essere indignati per quello che potrebbe succedere.
Ma i governi che hanno sottoscritto questo migration compact, oltre a dare soldi, non potrebbero assicurarsi che le condizioni nei centri di detenzione siano umane?
Questo non l’ho visto negli accordi e quindi non vedo alcuna garanzia affinché si ripetano gli orrori del passato.
In ogni caso, tuttora, il governo di al-Sarraj non ha il controllo totale della Libia.
Chiaramente no, ma indipendentemente da chi ha il controllo del territorio libico, rimane la nostra preoccupazione per il modo in cui vengono trattati i migranti nel paese.
C’è anche un accordo con il Niger, paese di passaggio obbligatorio per molti africani che vogliono venire in Europa.
La logica rimane la stessa: tenere i migranti lontano da noi e lo stesso Fondo per l’Africa lo dice esplicitamente. L’idea è di bloccare tutti questi flussi.
Quindi questa è una ripetizione dell’accordo EU-Turchia?
Certo e questo lo dicono: l’accordo con la Turchia è stato usato come modello.
L’accordo con la Turchia sta funzionando?
Operativamente sì, insieme al blocco della rotta balcanica, nella misura in cui il flusso è diminuito drasticamente, anche se qualcuno cerca ancora di arrivare in Europa attraverso la Bulgaria e la frontiera turco-greca.
Si sa che in Turchia è molto diffuso il fenomeno dello sfruttamento minorile per i figli di molti rifugiati siriani.
Sì, ma questo fenomeno non si limita alla sola Turchia.
Dove altro è presente?
In paesi come la Giordania e il Libano.
Interessante notare che quando l’Italia e la Grecia a La Valletta hanno cercato di riformare la famosa clausola di Dublino non hanno trovato un responso unanime.
La logica è sempre la stessa: quella di “non nel mio giardino”.
Ossia?
Che i rifugiati rimangano in Turchia, in Libia o in Italia o in Grecia, quel che conta è che non vengano disseminati in giro per i paesi europei. In Grecia, per esempio, pochissimi dei rifugiati che dovevano essere ricollocati altrove sul continente ce l’hanno fatta: il processo è lentissimo. Manca la volontà europea di farsene carico.
Sembra quasi che l’Europa stia dando ragione a Trump.
Questa è la contraddizione: l’Europa critica Trump per i muri che sta ergendo, però prima di criticare dovrebbe chiedersi “Ma cosa stiamo facendo veramente noi?”
La stessa Merkel, fino a poco fa vista come paladina dell’immigrazione sembra, forse per motivi politici, essersi tirata un po’ indietro.
Ormai temo che non si salvi più nessuno: questa logica del “stai lontano da me” è quella dominante ed è quella, appunto, che ci ha portato all’accordo di La Valletta. Senza capire che questo avrà delle conseguenze dirette sulla dignità e sulla salute delle genti in movimento.
In ogni caso non c’è nessuna garanzia che il flusso di per sé possa arrestarsi.
No, ma al tempo stesso non c’è garanzia che si fermeranno le sofferenze di migliaia di persone, e questo è inaccettabile.
Ma questo tipo di accordo non potrebbe funzionare come incentivo a non partire dal proprio paese, soprattutto per i cosiddetti rifugiati economici?
Su questo non posso al momento non posso speculare. Posso solo dire che finché rimangono invariate le motivazioni che spingono molti a partire, continuerà ad esserci il tentativo d’intraprendere il viaggio. La stragrande maggioranza delle misure intraprese cercano di bloccare il flusso, invece che risolverne le cause di fondo.
E in ogni caso i flussi migratori non sono una novità.
Certo, è un fenomeno storico. Senza andare troppo indietro nel tempo, basti pensare a quello che è successo negli anni ’90 con la grande migrazione dai Balcani e in particolare dall’Albania. Pensare in termini di “fortezza Europa”, storicamente parlando, non ha senso.
La vostra organizzazione come si muoverà di fronte a questi nuovi sviluppi?
Chiaramente questa nuova situazione ci mette in difficoltà. Ma al di là dei soliti comunicati stampa, ci uniremo alla società civile, insieme ad altre organizzazioni, per una dimostrazione a Roma il 20 maggio, a un anno dall’accordo UE-Turchia per esprimere il nostro dissenso.