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Ipotesi sul ‘Regime Trump’, intervista a Federico Romero

Postato il Novembre 18, 2016 Attilio De Alberi 0

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Dopo la spiazzante vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane ci si continua a chiedere come si è arrivati a questo risultato e naturalmente, come europei, e comunque non-americani ci si chiede anche quali saranno le conseguenze a livello internazionale.

Al di là dell’aspetto temperamentale tipico di The Donald, rimane il fatto che, almeno a parole, il nuovo presidente sembra voler recuperare la vocazione isolazionista della politica americana. Al tempo stesso c’è da osservare, storicamente parlando, che in una maniera o nell’altra, e soprattutto a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando gli USA divennero una maggiore potenza mondiale, gli episodi d’interventismo, occulto o alla luce del sole, si sprecano. E questo indipendentemente dalla colorazione politica dei presidenti in carica.

Donald-Trump-regime

D’altra parte, come fece osservare uno storico americano subito dopo l’avvento di Obama, “I presidenti cambiano, ma l’Impero rimane.” Secondo un simposio organizzato pochi giorni fa dal Council of Foreign Relations a Washington, i prossimi sei mesi saranno cruciali per capire in che direzione si muoveranno le cose, anche di fronte a un’ormai assodata Seconda Guerra Fredda.

Nel medio-lungo termine, se da un lato la sconfitta di una Clinton tendenzialmente intervenzionista potrebbe farci dormire sonni più tranquilli, il controllo dell’arsenale nucleare USA da parte di un personaggio temperamentale, che per giunta parla di rendere di nuovo  “l’America Grande” come The Donald, al di là della sua apparente vocazione isolazionista, potrebbe rivelarsi un incubo.

Parla di tutto questo a YOUng Federico Romero, studioso di storia americana e di relazioni internazionali e professore all’European University Institute di Fiesole.

Come ha reagito alla vittoria di Donald Trump?

Sono rimasto sorpreso soprattutto dalla misura in cui ha vinto, dalla sua capacità di portare così tanta gente alle urne facendolo vincere in quegli stati che erano in bilico.

Uno dei motivi principali del successo di Trump nasce forse dalla delusione dell’America profonda e soprattutto degli ‘uomini bianchi arrabbiati della rust bell nei confronti del Partito Democratico?

Sì, ma non è una novità: si sono sentiti abbandonati da molto tempo. Ultimamente il fenomeno è diventato più massiccio.

In che senso?

La candidatura Clinton, come rappresentante dell’establishment non ha fatto che peggiorare le cose. E poi bisogna considerare la peculiarità della campagna elettorale.

Cioè?

Non si è parlato altro che di Trump piccole o grandi follie e fobie piuttosto che delle email della Clinton.

Quindi ciò a scapito di una concentrazione su serie proposte sociali ed economiche?

Sì, e in particolare le proposte che la Clinton aveva preso dal programma di Sanders per andare incontro alle esigenze dei delusi sono scomparse.

Crede che se Sanders fosse entrato in gara contro Trump avrebbe vinto?

Credo di no, perché pur raccogliendo voti dal gruppo dei delusi non avrebbe raccolto abbastanza preferenze da afro-americani e ispanici.

E la sua connotazione ideologica?

Anche quello avrebbe potuto essere un fattore a suo svantaggio.

Rimane il fatto che l’essere un populista e un outsider rispetto all’establishment ha aiutato Trump.

Questo vale però soprattutto per quanto riguarda le primarie. Poi il partito nel suo insieme ha finito per ricompattarsi attorno a Trump. Quindi questa è finita per essere non solo una sua vittoria, ma anche una vittoria repubblicana.

Nel suo discorso appena confermata la vittoria Trump ha parlato di fine delle divisioni e di investimenti nell’economia.

La prima affermazione fa parte della retorica tipica di tutti i nuovi presidenti: siamo tutti americani e abbracciamoci.

E la seconda?

La seconda rimane nel vago. I repoubblicani hanno in mano anche il congresso con una maggioranza conservatrice per ciò che riguarda gli aspetti sociali e razziali. Ma non c’è ancora un piano chiaro per l’economia.

In che senso?

Trump invoca da un lato una politica economica repubblicana classica, cioè l’abbassamento delle tasse, ma al tempo stesso preme per una fine dei trattati commerciali, e questa è una novità.

Quindi dove ci si potrebbe spingere?

Verso una forma di nazionalismo economico. Questo ricorda la situazione degli anni ’30: siamo di fronte alla crisi della globalizzazione liberista per cui la quale si troveranno svariate ricette. Per ora ci si muove a tentoni.

Siamo in qualche modo di fronte alla “fine” del Partito Democratico?

Beh, il nuovo Partito Democratico nato con Bill Clinton dovrà rinnovarsi per non morire, anche dal punto di vista generazionale.

Ipoteticamente, come vede l’arrivo di un giovane sanderista che cerchi di rivoltare il partito?

Questa è un’ipotesi molto probabile. Ci sarebbe senz’altro non poca resistenza da parte dell’establishment maggioritario, ma questa sarà certo una linea di tendenza dei democratici futuri.

Rimane comunque il problema della maggioranza repubblicana nel Congresso.

Questo è il problema dei problemi, e si è visto molto bene durante l’amministrazione Obama.

Tra due anni ci saranno le elezioni per il Congresso e se Trump non dovesse riuscire a mantenere le sue promesse potrebbe esserci una rimonta democratica.

In base al sistema elettorale le chance di una rimonta nella Camera dei Rappresentanti sono esigue. Ci sono più possibilità nell’elezione del Senato.

La sconfitta della Clinton è anche una sconfitta di Obama?

Fino a un certo punto: rimane una sconfitta della Clinton e del Partito Democratico. Non dimentichiamo che uno dei grossi problemi per Obama era il semplice fatto di essere nero, di fronte a un pesante revival del suprematismo bianco, accoppiato ai soliti problemi economici e sociali.

Come vede la presidenza Trump proprio nel bel mezzo della nuova Guerra Fredda?

I segnali sono contraddittori: da un lato Trump sembra apprezzare o comunque accettare il regime di Putin, non voler immischiarsi con l’Ucraina, ridurre l’impegno USA nella NATO, soprattutto economicamente, e ridurre l’appoggio agli alleati nell’Europa dell’Est. Ma tutto questo avrebbe un prezzo.

Quale?

Innanzitutto il partito repubblicano è da molto tempo fortemente anti-russo, e poi far saltare per aria i rapporti con la NATO e gli alleati europei non è cosa di poco conto.

C’è comunque da tenere in mente il carattere volatile di Trump.

Sì, c’è l’imprevedibilità temperamentale dell’uomo, ma anche la totale incertezza su quale team andrà a lavorare con lui. Non dimentichiamo che l’establishment repubblicano ha mostrato grande disaccordo con Trump in politica estera, andando a firmare appelli su appelli.

Si comincerà almeno con i trattati commerciali, a partire dal NAFTA?

Sì e poi erigerà una qualche forma di muro con il Messico, per far contento il suo elettorato, e pagherà un prezzo nei rapporti con l’America Latina. Ma questo se lo può permettere.

E gli altri epicentri di crisi a livello mondiale?

Qui c’è una contraddizione: da un lato ha un atteggiamento di maggiore distacco e mostra disponibilità a parlare con i vari Putin ed Erdogan, ma dall’altro sventola l’idea di una nuova grandezza americana.

Quindi?

Questo lascia senz’altro un certo livello di tensione irrisolta e la possibilità d’intervenire.

Ma per ciò che riguarda la NATO l’intenzione di Trump pare sia semplicemente quella di tagliare o ridurre il contributo economico USA.

Sì, ma questo cosa vuol dire? Sciogliere la NATO? Sostituirlo con una forza di difesa europeo. Non è così facile e questo progetto potrebbe facilmente sgonfiarsi.

Trump si è anche mostrato molto amico di Netanyahu, promettendo di fare di tutto affinché Gerusalemme diventi la capitale d’Israele.

Senz’altro sarà più amico degli israeliani che dei palestinesi, vista anche la sua impronta anti-mussulmana.

Al tempo stesso si nota recentemente un avvicinamento tra Israele e la Russia di Putin: quindi i conti potrebbero tornare.

Sì certo, ma il nodo cruciale rimarrà il futuro della Siria e di Assad.

Secondo certe analisi, potrebbe esserci un comune interesse a tenerlo al potere, pur di avere un uomo forte che si oppone al jihadismo.

Certo, esiste anche questa possibilità.

E i futuri rapporti con la Cina?

Trump ne ha parlato poco, ma questa rimane la questione delle questioni.

In che senso?

Se in nome di una nuova politica commerciale ci si muove verso una maggiore conflittualità, questo potrebbe avere, potenzialmente, una portata enorme, più di qualsiasi altro scenario.

Che tipo di scenario?

La capacità della Cina di egemonizzare altri paesi dell’Asia orientale crescerà e sembra difficile che gli USA potranno esercitare una grande capacità di attrazione, soprattutto se non firmano il trattato di libero commercio del Pacifico. Lì ci sarà il vero punto di caduta o di realizzazione dell’amministrazione Trump.

Ma qui si parla di conflitto commerciale, non necessariamente militare.

I due aspetti nel lungo termine sono inseparabili: difficile immaginare che questi paesi possano vivere entrare armi e bagagli in una sfera d’influenza economica cinese senza trarre certe conseguenze anche a livello di sicurezza.

Già si vede un forte avvicinamento delle Filippine, tradizionale “colonia” USA, alla Cina.

Sì e ora c’è anche la Malesia: alla fin fine la partita per Trump sarà quella. Per ora rimane poca chiarezza.

Di nuovo, sarà da vedere fino a che punto l’establishment repubblicano potrà influenzare o controllare il suo presidente.

Sì, senza però dimenticare che in politica estera la presidenza USA ha molto più margine di manovra che in quella domestica. E poi: se attingerà i suoi collaboratori dalla vecchia guardia, allora ci sarà una certa continuità, ma se sceglierà degli outsider tutto diventerà imprevedibile.

Autore

  • Attilio De Alberi
    Attilio De Alberi

    Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.

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Attilio De Alberi

Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.


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