Per capire il futuro del Medio Oriente, almeno nel medio termine, bisogna capire che l’arrivo in scena di DAESH è solo l’ultima goccia che rischia di far traboccare il vaso in un teatro economico e strategico di vitale importanza per una serie di poteri forti, sia a livello locale che internazionale. No, il Medio Oriente non è il Ruanda, il piccolo paese africano dove milioni di persone morirono nel feroce conflitto tribale tra Hutu e Tutsi, praticamente nell’indifferenza operativa del mondo e dell’l’ONU. Il Medio Oriente non è come tanti altri posti sulla Terra dove, nell’indifferenza generale, fatti molto gravi avvengono: recentissima l’uccisione della sindachessa Gisela Mota in Messico vittima degli spietati narcotrafficanti, Il Medio Oriente è troppo importante per troppe persone “importanti”. Ma tant’è.
A sostegno di questa constatazione abbiamo i semplici fatti di questi giorni. Da un lato l’escalation di conflittualità tra Arabia Saudita e Iran, e dall’altro, in Israele, la recrudescenza della cosiddetta Terza Intifada, che non è più solo dei coltelli. E le “luci della ribalta” sono più che mai puntate su questa regione dannata.
L’esecuzione a Riyhad del clerico pacifista sciita Nimr al-Nimr, preceduta da un processo legale sul quale sono sorti molti dubbi e che più che mai conferma il carattere profondamente autoritario e anti-democratico della monarchia saudita, sta causando una querelle molto pesante con l’Iran appunto sciita. Interessante scoprire attraverso Wikileaks che i servizi segreti americani temevano un arruolamento di al-Nimr come agente iraniano, pur sottolineando la natura fondamentalmente pacifica e democratica del suo attivismo non tanto in funzione religiosa, ma più in generale indirizzato a una fine della dittatura saudita.
Ma in realtà, come spesso succede e come la storia c’insegna, la religione – in questo caso la secolare distinzione tra mussulmani sunniti e sciiti – altro non è che una copertura o una giustificazione di conflitti ben più concreti. Fondamentalmente sono proprio questi due stati, l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita, i principali contender locali per la supremazia in Medio Oriente. Vedi anche il conflitto in Yemen. Poi naturalmente abbiamo la Turchia di Erdogan e l’Israele di Netanyahu.
Non è un caso che subito dopo la firma del trattato nucleare tra Iran, non più nella lista USA degli stati canaglia, e l’Occidente, non solo Israele, ma anche l’Arabia Saudita abbiano fatto le loro rimostranze. E sembrerebbe quasi che questa esecuzione sia un messaggio inviato dal petromonarca agli USA e all’Inghilterra, storici alleati del paese (che, storicamente, è in realtà una creazione americana). Come per dire: ci siamo anche noi e sappiamo menare le mani. In realtà è un segno di debolezza – che è anche una debolezza economica, visto che pochi giorni prima delle esecuzioni è stato pubblicato il peggiore deficit nel budget nella storia del paese. In generale l’egemonia si sta spostando a favore dell’Iran, tra l’altro molto più attivo e trasparente nella lotta contro DAESH.
Timida la reazione di Obama che ha invitato l’Arabia alla moderazione, mentre il Segretario di Stato Kerry si è messo in contatto con il suo omologo iraniano per cercare di calmare gli spiriti infuocati.
Ma al netto di questa recente escalation tra i due giganti medio-orientali, ciascuno coi suoi enormi interessi economici in competizione (il petrolio, ovviamente), e geostrategici (il Golfo Persico e lo Stretto di Hormuz), rimane il fatto che la violenza di stato saudita e in generale il suo regime repressivo e ispirato da una delle versioni più retrograde dell’Islam (il fatto che le donne non possano guidare è solo l’esempio più folkloristico) non siano una novità per gli alleati occidentali.
Tra questi l’Italia di Renzi, che da poco ha fatto visita a Riyhad, dove ha reso omaggio al nuovo giovane re, statisticamente peggiore del padre per il suso record di repressione. Sottolineare queste cose avrebbe senz’altro rovinato il business trip del nostro Primo Ministro “piacione”: il Made in Italy, la costruzione della metropolitana di Riyhad alla quale parteciperanno imprese italiane e, last but not least, la vendita di armi di Finmeccanica sono di gran lunga molto più importanti dei diritti umani. Così va il mondo, o perlomeno questo mondo.
Senza dimenticare che l’Arabia Saudita ha foraggiato e continua a foraggiare gruppi jihadisti a destra e a manca e proprio da uno di questi, nel corso della lotta contro l’arci-nemico sciita Assad in Siria è nato il mostro (di Frankeinstein) noto come ISIS o DAESH. Perfino un personaggio decisamente ambiguo per quanto riguarda la politica estera come Hillary Clinton l’ha dovuto ammettere. E per di più vale ricordare che, almeno fino a poco fa, ricchi personaggi noti alla corte saudita finanziavano direttamente il feroce califfo di Raqqa e dintorni.
Sembra infine una triste battuta, ma, sempre secondo fonti Wikileaks, evidenziate dal londinese The Independent, il Primo Ministro britannico Cameron, grande amico di Rijhad, avrebbe favorito la candidatura saudita alla presidenza del Consiglio dell’ONU sui Diritti Umani.
E che dire della situazione in Barhain, dove il regime represse nel sangue un tentativo di Primavera Araba nel 2011 con l’aiuto di truppe speciali saudite? Ora si teme una nuova ondata di repressione, mentre nelle carceri languono 4mila detenuti politici. Tra cui due sciti nel braccio della morte. Il fatto che questo staterello, succube di Rijhad, ospiti la V Flotta USA, ci fa capire come e perché il democratico Occidente chiuda un occhio, se non due.
Le stesse osservazioni, coi dovuti distinguo, si potrebbero fare, a proposito di alleati a dir poco ambigui, sul rapporto tra l’Occidente e la Turchia (membro NATO) del neo-Sultano Erdogan , laddove la repressione contro curdi e giornalisti è ordine del giorno e, per giunta, le connivenze con DAESH non sembrano essere solo un’invenzione russa.
Non addentriamoci poi nel rapporto con l’Egitto del “nostro amico” generale Al Sisi, non esattamente un campione di democrazia ad essere gentili.
Passiamo dunque all’altro nodo cruciale nel Medio Oriente, temporaneamente retrocesso in secondo piano: l’atavico conflitto tra Israele e i Palestinesi. Mentre si allunga la lista di coloro che riconoscono la Palestina come stato – ultimo la Grecia, mentre il Vaticano si sta avvicinando al traguardo – l’Italia del buon Renzi per ora esclusa – due cose sembrano certe: il cosiddetto “processo di pace” di Oslo è praticamente lettera morta, e lo Stato Israeliano, nella sua versione ultra-sionista del Primo Ministro Bibi (Netanyahu) sta perdendo più che mai quell’aura di paese democratico, occidentale e illuminato che ha cercato di vendere al mondo.
Ovviamente il regime guidato dal Likud (il partito conservatore israeliano) fa di tutto e di più per presentarsi mediaticamente come una vittima della violenza random scatenata dalla Terza Intifada. Nasconde però quello che teme di più: la crescita di un movimento pacifico per i diritti civili che coinvolge non soltanto i soliti “sfigati” palestinesi e gli attivisti internazionali Arrigoni style, ma anche sempre più israeliani. Sempre meno ebrei, in Israele e nel mondo comprano il sionismo, inteso come nazionalismo espansionista.
Purtroppo si è giunti a questo per un motivo ben preciso di cui Bibi non è l’immediato responsabile. Mentre nel 1993, ai tempi di Oslo i coloni ebrei in Cisgiordania erano 100mila, adesso ce ne sono sei volte tanti. Insomma è stata portata avanti una furba e spregiudicata politica di facts on the ground che equivale a un consapevole boicottaggio del processo di distensione. Bibi & Co. e i cittadini israeliani ne stanno pagando le conseguenze e forse si sta arrivando al redde rationem.
Ovviamente questa politica non può che alimentare il reclutamento di palestinesi frustrati tra le file del sedicente Stato Islamico, mentre, altro dato da non trascurare, è l’aumento di sciiti tra gli abitanti dell’infernale prigione a cielo aperto che è diventata Gaza.
Tutto questo per dire che anche qualora il mostro DAESH venisse finalmente debellato, ciò non significherebbe necessariamente la fine della crisi mediorientale nelle sue varie e complesse componenti.
A netto delle valutazioni etico-politiche nel campo dei diritti umani, al di là quindi del trito giochetto dei due pesi-due misure, l’Occidente, dopo aver facilitato, se non creato, tante divisioni negli ultimi tempi (non dimentichiamo che in un passato non lontano il conflitto sunniti-sciiti era molto più morbido), dovrà prendersi carico del nuovo assetto della regione, inevitabilmente in concertazione con la Russia, ma anche con la Cina, sempre più attiva nel suo ruolo di honest broker, onesta mediatrice, nelle tante crisi planetarie. La rinuncia al monopolarismo targato USA è un passaggio storico ineludibile.
Non bisogna essere un Metternich o un Bismarck o un Kissinger (o forse bisogna non essere come questi personaggi) per capire come una pace permanente in Medio Oriente possa nascere da una ricostruzione politica, sociale ed economica del tessuto civile della regione, ridisegnata a tavolino dall’Occidente dopo la fine dell’Impero Ottomano un secolo fa. E giustamente non bisogna trascurare il fenomeno di crescente proletarizzazione dell’Islam, proprio a partire dalla fine dell’egemonia di Istanbul.
Molto interessante, per ciò che riguarda Israele, è la tesi/proposta lanciata da uno studioso ebreo americano, Mark LeVine, e da un ambasciatore ebreo svedese, Mathias Mossberg, nel volume One Land Two States – Israel and Palestine as Parallel States (‘Una terra due stati – Israele e Palestina come stati paralleli’). Visto che il processo di pace di Oslo (al quale Mossberg ha partecipato attivamente) sembra non andare da alcuna parte, si potrebbe prefigurare la fine delle frontiere tra Israele e Cisgiordania e Gaza. Essenzialmente la nascita di due stati a cui fanno riferimento due popoli con la loro specifica identità culturale e religiosa. In pratica, invece del rigido rapporto tra stati e territori, ci sarebbe il rapporto più diretto tra stati e individui. Una possibile analogia, pur con le ovvie differenze, è quella di un condominio, con famiglie distinte che amministrano lo stesso palazzo.
Modestamente, e realisticamente, LeVine non considera questa idea un sogno, ma nemmeno una precisa roadmap. Aggiunge anche che l’Europa, il maggiore partner commerciale di Israele, potrebbe avere una considerevole voce in capitolo e, secondo lui, non pochi diplomatici europei stanno studiando con interesse il PSP (Parallel States Project) come alternativa potenziale alle rigidità sconfitte del post-Oslo.
Per parafrasare Einstein la vera follia consiste nel continuare a usare sempre le stesse soluzioni di fronte a un problema, pur dopo esserci resi conto che non portano da nessuna parte o che, addirittura, peggiorano le cose.