IL FUNERALE MAFIOSO ALLA VITA
Formulare la domanda giusta: ecco il problema di ogni conoscenza. Cosa voglio sapere? cosa è che devo cercare? Ecco ciò che veramente rischia di scomparire dall’orizzonte culturale contemporaneo. Nulla veramente illuminano le boutade della stampa integrata, invece, che finge agri stupori sulle questioni una volta che le questioni sono belle che consumate e che essendo avvenute hanno prodotto le conseguenze a cui miravano, a cui erano interessate, e che dunque nessuna dietrologia potrà neutralizzare.
Sto parlando del funerale mafioso celebrato nella capitale d’Italia appena poche decine di ore fa, quel funerale mafioso a cui voglio omettere di dare un nome, perché merita, con i resti del suo oggetto una Damnatio Memoriae e null’altro, rinunciando all’impennata dei click che avrei piazzandolo in caratteri cubitali nel titolo di questo pezzo, come hanno fatto e faranno tutti e perché, comunque, tanto ce ne hanno talmente informati che chiunque sa benissimo di chi stiamo parlando pur senza fare un solo nome. Quel funerale, probabilmente per una inconscia e istintiva vocazione degli interessati, aveva uno scopo, preciso e politico. E questo scopo lo ha clamorosamente raggiunto: essere viralmente propagato urbi et orbi da ogni organo di stampa, come legittimazione e consacrazione del potere. Voleva questo. Questo ha ottenuto finendo persino sulle pagine del New York Times. non plus ultra.
Immediatamente il sistema della informazione si è messo a regime per servire questo interesse coincidente con quello di dare spettacolo, con tutta la potenza delle sue bocche da fuoco. Ce se ne poteva rendere conto facilmente, se ieri si fosse lasciato aperto sperimentalmente per tutto il giorno il canale di Rai News24, come ho voluto fare, dove la notizia e le immagini, la celebrazione della concretezza di quella esecrabile cosa consumata senza alcuna difficoltà in Roma, sono andate in loop giornalistico fino a notte inoltrata e fino al mattino dopo, e probabilmente ancora ora vanno; ininterrottamente scandendo lo stesso nome, mostrando e rimostrando le stesse immagini del fasto e del potere di usare elicotteri, carrozze, bande, affiggere icone; scarificando la superficie delle nostre coscienze con una ininterrotta riscrittura sulle nostre capacità critiche di quelle litanie dei giornalisti specializzati nel settore che sgranavano il rosario di falsi stupori preconfezionati ad uso della divisione informazione della industria culturale.
Si tratta di connivenza, consenso pieno, sistema integrato e integrale, invece, quello di questo tipo di informazione, dissociata dal sapere quello che fa la “mano destra” della produzione culturale sociale mentre la “mano sinistra” della informazione si strappa ciocche di capelli: ovvero produrre permanentemente epos criminale e mafioso con tutti i mezzi possibili e immaginabili della produzione culturale.
Il rapporto d’amore, serrato e passionale, tra il potere criminale e le rappresentazioni che di esso producono la cultura e l’arte, da decenni ormai unificate nell’industria culturale, della parte legale della società, che dovrebbe esserne la irriducibile avversaria, con a giustificazione di questo paradosso la altisonante retorica della denuncia sociale, e che questa informazione culturalmente dissociata non può onestamente riconoscere per motivi di materialismo storico, era completamente lampante nelle immagini ovunque trasmesse di quella mercenaria banda musicale, che al seguito di quel feretro trasportato da un lugubre cocchio real-disneyano, di uno che era stato in vita certamente mandante di crimini anche efferati, suonava il celebre brano musicale del film “Il Padrino” già eseguito in celebrazione del concreto e realmente sanguinario potere mafioso, anni e anni prima di questo funerale, correva il lontano 1973, in tutti i cinema del mondo, e poi in tutte le televisioni del globo, davanti a milioni e milioni di entusiaste persone per bene; punto di coincidenza tra dimensioni che vorrebbero sapersi poi totalmente scisse. Oppure in alcuni arresti, di cui la stampa ci aveva dato notizia tempo addietro, di latitanti trovati con sopra il comodino una pistola e il libro Gomorra.
Ecco gli specchi magici prodotti dalla parte “sana”, non criminale, della società, in cui bramano vedere le personalità criminali riflesse le loro imprese, i loro omicidi, la predazione delle vite di quella società stessa che essi, sfidando leggi e istituzioni, saccheggiano spargendo disperazioni dolore e infiniti lutti: specchio, il feticismo che del crimine ne fa’ la nostra industria culturale, generatore di quella immagine del narciso criminale e di quel feroce eros mimetico che può spingere un giovane a consacrarsi alla ignobile gloria del crimine anche e sopratutto omicida.
Non si può infatti completamente rimuovere dalla coscienza storica che nella produzione dei grandi film di mafia italo-americani, al di la dell’arte che essi sono, vi è anche espressione di un rapporto di forza che era evidentemente arrivato , tra mafia e società civile, nella società americana a vedere la maturazione di una tale potenza economica e militare della mafia da permetterle di attrarre e ingaggiare esteticamente la vera arte, anche semplicemente con il carisma della propria potenza, e che del resto fu narrata principalmente da artisti, espressione dell’intellighenzia di seconda generazione, figli di quella prima immigrazione italiana che aveva dato alla mafia la sua forza militare, i quali, volenti o nolenti, traevano perciò essi stessi potere e carisma da questa appartenenza etnica, potenza che richiedeva a quel punto una spettacolare rappresentazione per essere legittimata definitivamente e che essi realizzarono con i capolavori cinematografici che tutti conosciamo.
Il rapporto positivo del consenso sociale con i protagonisti dell’epos mafioso e criminale lo si può vedere in concreto misurando e soppesando la quantità della produzione dei film sulla mafia, che ha al suo attivo oltre 150 titoli importanti, molti dei quali considerati capolavori del cinema, e tassonomicamente organizzata su wikipedia in quattro sotto categorie, di cui una, quella a nome “camorra”, ha 19 titoli, mentre “il padrino” categoria autonoma, con i suoi titoli è l’indiscussa “Iliade” cinematografica mondiale dell’epos mafioso, e di cui se ne officia ormai la liturgia in una perenne orgia di parodie di cui è pieno il web, e il mondo dei media in generale, cui prestano se stessi giganti della satira come Crozza ma anche schiere di addestrati bambini di pochissimi anni, consolidando cosi affetto nelle masse verso queste figure della violenza barbarica, della predazione, della vigliaccheria assassina, e confrontandola poi con la quantità della produzione di un altro genere del cinema che anche tratta la materia della violenza: quello sulla lotta armata negli anni 70.
Una violenza quella mafiosa che ambisce al possesso del potere, dei beni delle ricchezze e soprattutto del fasto lussuoso ma che vuole continuare a vivere, probabilmente per un resto incombusto della miseria ancestrale da cui si è sviluppata, come invisibile parassita nelle morbose pieghe della carne della società, senza nessun progetto di mondo. Soltanto nutrendosi di sangue. L‘altra invece, la violenza politica, rinunciando a ogni ricchezza immediata, vuole il supremo potere sovrano di fare e rifare il mondo, e che probabilmente nelle sue mani dolorose sarebbe diventato incubo totalitario, ma di questo si trattava e si tratta.
dunque nel caso di questo cinema, a differenza di quello con soggetto mafioso e criminale, perennemente diffuso come spettacolo-pane quotidiano, ecco che si percepisce un totale crollo del consenso sociale, consenso che è a sua volta culturalmente generato, e che si riflette nella quantità dell’investimento e nel coraggio produttivo: pochissimi titoli, associazioni dei parenti delle vittime del terrorismo sempre sul piede di guerra, politici subito pronti a dissociarsi, stampa pronta ad accusare, autori cautissimi a non immettere troppa bellezza nell’opera, perché la bellezza Se-duce, porta a sé; improponibile positivizzazione dei protagonisti, semplicemente anche solo a partire dalla bellezza personale degli attori interpreti, come testimonia questa frase di Benedetta Tobagi: “Ci sono Riccardo Scamarcio e Giovanna Mezzogiorno, nel ruolo dei protagonisti, Sergio segio e Susanna Ronconi, cosi avremo il terrorista figo e belloccio», espressa a proposito del film “La prima linea” di Renato De Maria che suscitò non poche polemiche e problemi.
Eppure sulla bellezza e il carisma universale che Marlon Brando ha prestato all’omicida criminale Corleonese non ha fiatato nessuno. Per non parlare dei De Niro, degli Al Pacino, che hanno prestato le loro bellezze e carismi e dato indimenticabili e magistrali interpretazioni di caratteri criminali e mafiosi rendendo eternamente amati mostri come Scarface.
La mafia non lascia dunque rilevare nella sua sostanza nessuna reale idiosincrasia con il potere costituito e legale, ne vuole solo predare abbondanti proventi, ma condivide e sostiene il suo fine di conservazione, mentre la violenza politica dei rivoluzionari ne è per esso e per indistintamente tutti i suoi rappresentanti, una minaccia letale. E dunque è artisticamente non gradita la sua rappresentazione, a malapena tollerata in nome di una fragile libertà espressiva. Si capisce il ruolo strategico della rappresentazione artistica in questi scontri mortali per il potere, si capisce che la bellezza è letale, perché genera dalla sua sola propria energia la verità, e se-duce ovvero accorpa potere. Si vede come il potere e i suoi simboli siano questione cruciale della storia umana.
Aveva dunque ragione la Tobagi a registrare il pericolo che rappresenta la coincidenza della bellezza con contenuti inaccettabili, che diventano belli entropicamente scambiando la propria materia con quella bellezza. Ma il particolarismo della sua ragione, che dimentica che la sequela delle vittime delle varie mafie, comprese quelle vittime indotte anche solo a rovine morali e sociali, non sono assolutamente minori di quelle che ha fatto l’epoca buia della lotta armata in italia – in realtà infinitamente maggiori- ci dice che è una ragione cosi condizionata dal trauma personale la sua da perdere appunto di vista il fatto della necessità dello stesso rigore o timore anche nel campo della produzione spettacolare dell’ epos criminale.
Esistono 142 videogames che hanno come soggetto mafiosi, bande o crimine organizzato e sono giocati da decine di milioni di utenze, tra cui un oceano di minori. Non ne esiste nessuno che abbia a soggetto, per proseguire il parallelo che ho fatto nel cinema, un gioco di lotta politica armata. Ovviamente. E questo ovviamente richiederebbe una sua propria lunga riflessione che alcuni non mancheranno di tentare spero.
Per concludere osservo che se si ha una minima conoscenza dei linguaggi estetici dell’universo dei videogames di guerra o di crimine si potrà notare come il Logo della serie televisiva Gomorra, tratta dal romanzo di Saviano, richiami fortemente quegli stili, che sono linguaggi delle natività digitali, cioe i consumatori/generatori del presente e futuro mercato dell’entertainment interattivo, verso cui sembra inesorabilmente migrare la galassia Gomorra, –e chissà che il prossimo steep non veda il bestseller di Saviano diventare videogioco sparatutto in prima persona, cosa che non mi meraviglierebbe-, perché nella industria culturale i messaggi si rinforzano con l’essere moltiplicati nei suoi diversi settori (stesso stile di colonne sonore : il film Black howk down con il video gioco call of duty 4 ad esempio) e si resterà anche colpiti dal quantico salto morale che la serie televisiva ha spiccato lontanissimo dall’originale dichiarazione di intenti del libro di Roberto Saviano, di cui ora non stiamo a discutere, (lo ha fatto un interessante quanto desaparecido libro di Alessandro dal Lago, Eroi di Carta), di essere stato opera di aperta guerra alla camorra, sopratutto una guerra ai suoi linguaggi, una neutralizzazione della sua fascinazione, piuttosto che cantore e aedo della stessa.
Oggi rilevo che la nuova serie TV Gomorra è decisamente inno e ode all’estetica e all’universo criminale, e che ha spostato, con evidente forza di persuasione economica, su questo piano di produzione di stilema e epos criminale, registi del calibro della Comencini: lavoro commerciale di primissimo ordine, che va di pari passo con le evoluzioni del costume delle borghesie mafiose di nuova generazione proiettate verso orizzonti “bene” internazionali.
Si potrà altresì restare molto interessati, a questo definitivo prolasso mercantilistico dell’autore di Gomorra, soprattutto della dichiarazione di intenti che lo aveva sostenuto, a guardare il video anche gravido di stilemi da videogioco di crimine, “Gomorra La Serie – Special Backstage” caricato sul canale youtube di Saviano stesso, Sentendo e vedendo in esso parlare autori registi , tecnici e attori in uno stile sempre euforico, positivo, da televisione americana tra reality e documentario, in montaggio alternato e fibrillante tra parti di trailer della serie e interviste, dati statistici di produzione e riflessioni meta cinematografiche tinte di una qualche orecchiata sociologia, ma senza nessun pudore o minimo sentimento esternato di dolore sociale verso il portato di violenza e crimine dell’originario contenuto reale di cui la serie mima la realtà, e di cui ci vengono mostrate barocche scene infestate di strabordante orgoglio criminale armato di kalashnikov.
“il mondo di gomorra ha una precisa linea stilistica” recita ad un certo punto le voce asettica quanto glamour del commento con piglio commercial-scientifico in un susseguirsi frenetico di frames “costumi, location, arredi e architetture disegnano un quadro coerente e preciso: l’universo parallelo della criminalità organizzata” immediatamente seguito nel montaggio da un pezzo di trailer che rafforza il senso di voyeuristica endoscopia delle interiora criminali ( da minuto 13.55 a 14.06 del trailer). Stanno parlando di qualcosa che è la camorra, degli omicidi veri , delle vere vite spezzate di migliaia di adolescenti, dei veri morti assassinati a freddo e alle spalle, di una immensa malattia della vita sociale, di un carsico e immenso giacimento di tragedie oscure e vere, ma ne hanno completamente perso di vista il senso e nella macabra euforia dello spettacolo ne sono diventati i ridenti ed ebbri cantori: pura Hybris e Paradigmatica operazione di feticizzazione, a uso consumistico spettacolare, dell’ epos criminale.
Autori, registi e attori, nel tramonto della società civile, nell’estinzione delle intelligenze culturali sociali, nell’abdicazione del coraggio intellettuale, possono con una totale nonchalance morale, parlare dei propri modelli criminali, “loro” per gli amici, dal cui stesso territorio reale, non negli studios, stanno gomito a gomito con le vere attività della criminalità, fiera, suppongo, di tanto onore spettacolare, costruendo questo epos per i tempi a venire, sempre con il sorriso sul volto, con venerazione, rispetto e mistica assolute della cifra criminale, in una vera e propria pornografia del crimine senza nessuna remora, dando esplicitamente per implicito, da ogni epifania del volto, per dirla con levinas, trasmessaci dai primi piani delle telecamere degli attori, che, ripresi nei terribili panni dei loro protagonisti nel backstage, ammiccano con una malcelata fierezza a queste loro discese e incarnazioni nel crimine omicida, essere ormai lo spettacolo dell’epos criminale il bene, e il male invece, tutto ciò che, fallito in quanto potere e violenza, non sarà mai raccontato nè da nessuno ascoltato, e che è dunque ciò che è sconfitto, in quanto espulso dalla Storia.
Serie tv questa di GOMORRA prodotta del resto da un moloch come Murdoch, il quale può ben imporre tremendo rispetto per la propria potenza economica e sociale a questo o a quello o anche a più di un reparto del crimine organizzato.
I motivi di questa differenze, ricordate, tra la rappresentazione artistica della violenza criminale e della violenza politica, nel consenso del pubblico, sono una delle domande che la società dovrebbe riprendere a farsi. Allora i perché della celebrazione di un funerale Mafioso nella capitale d’Italia comincerebbero a produrre anche una qualche ragione al posto delle sceneggiate neomelodiche della grande stampa. Dovrebbe. Ma siamo fottuti. Imbalsamati da una recidiva di tremendo conformismo contro la quale nessun antibiotico sarà efficace e che ci sta uccidendo.
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