Ho sempre pensato che siamo fatti per raccontare delle storie. Ed anche per farci raccontare delle storie. Da bambino non avevo un gran rapporto con le favole, me ne sono appassionato dopo, leggendo soprattutto Calvino. Il mio rapporto con le storie era il rapporto con la nonna. Ancor oggi, a pensarci bene, lo è.
«Nonna, cùntece cacche fatto antico!» (nonna, raccontaci qualche storia antica… volendo essere comprensibili a chi ci legge da fuori Campania) era la frase magica. Partivano, allora, i racconti di guerra, le memorie da ragazzina, i racconti di mia mamma e di mia zia piccine. Anche le timide memorie della sua lunga storia d’amore con il nonno. Il bello è che le storie cambiavano – e cambiano, perché non ho perso l’abitudine di chiederle – continuamente. Ogni tanto entra od esce qualche personaggio nuovo oppure varia il finale. La memoria, col tempo, fa strani scherzi… ma io li ho sempre trovati divertenti.
Ovviamente i racconti che mi davano più curiosità erano quelli che avevano come protagonisti lei ed il nonno. Racconti teneri, memorie tenere e non sempre facilissime del rapporto tra loro due, tra loro ed i loro genitori e loro e le due bimbe, una delle quali sarà la mia mamma. Alcuni sono racconti fuori dal tempo. Ma sono belli proprio per quello.
Quello che sorprende, ogni volta, è la quantità di tempo che i due passavano a parlare. Parlare, parlare, parlare… un rapporto tenuto su da uno scambio intimo, sincero, costante. Un amore intimo, sincero, costante che si rispecchiava in bisogno tanto grande dell’altro da non aver bisogno solo di lui, delle sue mani, dei suoi abbracci, dei suoi occhi. Aveva bisogno dell’altra anima. E non poteva fare a meno di parlarle.
Un amore che nasce, che inizia a muovere i primi passi è un amore che parla. Arriva un momento in cui il cuore non resiste più al tenersi chiuso dentro di sé ed, allora, esplode. Trova uno spiraglio, insegue degli occhi, un sorriso, una parole gentile e si apre. Inavvertitamente, parla. In mezzo alle chiacchiere, ai sorrisi, alle risate, si parla di sé. La misura dell’intimità di un’atmosfera, del suo ingranare perfettamente, sta nella capacità di far aprire, di farci aprire. Di farci raccontare.
Il primo vero confidente di ognuno è, molto probabilmente, stato il diario. E, forse, per alcuni lo è ancora. Io racconto a me stesso la mia storia. Analizzo quello che vivo, raccolgo le memorie più importanti, le riflessioni più intime, le paure. Ma anche le speranze, le lacrime nascoste, gli atti più eroici e meno noti. Ma anche ciò di cui devo assolutamente vergognarmi. Nel diario ci entro io, il mio contesto, quello che sono e quello che vorrei essere. Ci entrano le persone che amo, la persona che amo di più. Racconto in parallelo la mia storia che è e quella che vorrei che fosse.
Raccontando all’altro la mia storia, ottengo lo stesso valore del racconto entusiasta a me stesso. Una persona è tale quando ha una memoria, sarebbe difficile riconoscerci, infatti, anche solo qui ed ora senza possedere un ricordo. Nella mia storia mi riconosco, mi identifico e posso diventare padrone di un tempo che ancora non c’è, che non posso ancora raccontare, solo se capisco la mia relazione con tempo già passato, trascorso, raccontabile.
Il racconto intimo, lo scambio dei pensieri, delle parole, delle speranze diventa l’atto più sincero e più istruttivo che posso dare a me stesso. Se è vero che nel racconto vado al nocciolo del mio cuore, io penso che si possa andare anche più a fondo. La scoperta – quella vera – non sta, infatti, nello scoprire chi sono ma nell’intuire che sono, che esisto qui, ora, davanti a te. E che sono disarmato, che posseggo solo quello che sono e che è quello che posso darti, insieme al mio amore. Se qualcosa nascerà oltre questo discorso.
Prendo in prestito Cartesio e cambio i termini al detto: memoro ergo sum. Se sono è perché ricordo, è perché ho vissuto e perché vivo. Se sono è perché racconto, perché posso raccontare, perché lo faccio qui ed ora. E non potrei mai farlo altrove.
Ci sono scintille che non possono scattare se non durante un discorso. Talune che non possono scattare se non alla fine di un discorso. L’intimità del racconto di sé e l’onestà nell’esposizione sono forse i segni più sinceri dell’amore. È uno dei gesti più grandi di fiducia che si possano fare. Ti racconto quello che sono affidandoti un pensiero, una speranza, un segreto nella certezza che, molto probabilmente, nei farai qualcosa di molto meglio di quello che potrò farne io. E, magari, lo faccio inavvertitamente, senza nessuna speciale scenografia, ma a cuore aperto, nelle ultime ore di una serata d’inverno, mentre fuori fa freddo e noi siamo in auto a parlare con le nostre mani intrecciate una nell’altra.
Non è facile parlare di sé. Non lo è nemmeno parlarsi di sé. Tutto risponde alla bontà di concedersi un’occasione. Certo, non è il primo interlocutore che passa quello a cui dire tutto – a meno di scintille – ma il racconto personale, quello che ci fa fare i conti con la nostra storia, non è destinato ad un interlocutore qualunque, ma a noi stessi. Ho spesso parlato di coraggio in questi miei articolo, ebbene ce ne vuole anche per fare i conti con il proprio cuore, per mettersi in ordine, per farlo onestamente. Una pagina alla volta si scrivono i libri, una frase alla volta si raccontano le storie. Ma la più bella che possiamo raccontare è intorno a noi, la viviamo ogni giorno. Almeno in potenza. Decidere di raccontarla, anche solo al nostro cuore, ci impegnerà a farla più bella. Scommettiamo?