Approvato dalla Camera nella giornata di martedì 27 novembre, il Decreto Sicurezza tanto voluto da Matteo Salvini contiene numerose incongruenze ed oscenità che abbiamo già avuto modo di mettere in evidenza in precedenza.
Un altro punto che va analizzato in maniera più puntuale riguarda la definizione di “Paesi sicuri” o addirittura di “aree sicure” all’interno di ciascun Paese. Secondo quanto proposto, infatti, il ministero degli Esteri e quello dell’Interno collaboreranno nella redazione di un elenco di Paesi di origine considerati sicuri, ed addirittura delle aree specifiche considerate sicure all’interno di ogni Stato, anche di quelli palesemente in conflitto come la Siria o la Libia: solo in caso di provenienza da un Paese e da una regione “non sicuri”, il richiedente asilo in Italia vedrà la propria domanda accettata, aumentando così in maniera spropositata il grado di discrezionalità da parte delle autorità in questione.
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Una visione sommaria che lascia molti dubbi, visto che bisognerebbe in realtà tenere conto della situazione personale di ciascun individuo, oltre che di quella del contesto locale, visto che la domanda viene presentata individualmente. Paradossalmente, infatti, una persona proveniente da un Paese considerato stabile potrebbe trovarsi a rischio in caso di una qualche persecuzione da parte di uno specifico regime politico o di un gruppo di persone: pensiamo a Paesi come la Guinea Equatoriale, considerata “stabile” e “virtuosa” all’interno del continente africano, sebbene Teodoro Obiang Nguema Mbasogo occupi la presidenza ininterrottamente dal 1979, dopo essere succeduto al proprio padre.
Proseguendo, basta considerare che attualmente sono oltre ottanta i Paesi ed i territori non indipendenti al mondo ad essere coinvolti in una qualche forma di conflitto per capire che quella della lista dei “Paesi sicuri” non risulta essere una buona idea, anche se – è giusto dirlo – si tratta di un provvedimento già adottato dalla maggioranza dei Paesi dell’Unione Europea, con l’eccezione della Svezia. Di fatto, se si escludono i Paesi facenti parte dell’Unione Europea (per i cui cittadini la circolazione è libera) ed altri Paesi ricchi i cui cittadini sono generalmente i benvenuti (Stati Uniti, Canada, Giappone…) scopriamo che la metà degli Stati del resto mondo è coinvolto in forme di conflitto più o meno persistenti.
Tra i conflitti oggi esistenti, cinque di questi sono considerati come “acuti”. Il più longevo è quello dell’Afghanistan, Paese ininterrottamente in guerra dal 1978, dove nel 2018 la situazione sembra essersi nuovamente aggravata, sfiorando le 36.000 morti nel solo anno in corso, e superando, secondo alcune stime, i due milioni di vittime nel quarantennio bellico. Vi è poi il noto caso del conflitto siriano, affiancato da quello meno mediatizzato ma altrettanto grave che è in corso nello Yemen, scoppiato nel 2011 come quello in Siria. In guerra è considerato anche l’Iraq, che in realtà non è stato affatto stabilizzato dopo la deposizione di Saddam Hussein: solo nel 2017 sono state registrate oltre tredicimila morti. Infine, il quinto e per molti sorprendente riguarda la “guerra della droga” che si combatte in Messico dal 2006, e che da allora ha superato le 250.000 morti.
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Già da questo primo scorcio, abbiamo visto che un Paese che molti possono considerate come non in conflitto, come il Messico, è in realtà lo scenario di un massacro che dura da anni. Il caso libico non rientra nel gruppo sopra elencato, in quanto, dopo la prima grave fase, il numero di decessi si è assestato sul migliaio all’anno (come se fosse poco), ma non per questo è il caso di considerare la Libia come un Paese sicuro. Sulle stesse cifre anche altre guerre più o meno note come il conflitto in Repubblica Centrafricana, quello in Mali, nel Darfur (regione del Sudan), in Somalia (il rapimento di Silvia Romano ne rappresenta solo un episodio) o in Nigeria, ed in Europa il conflitto del Donbass nell’Ucraina orientale.
Vi sono poi conflitti cronici a bassa intensità, ovvero che durano da decenni pur non provocando (al momento) stragi massicce: ad esempio, il conflitto di confine tra India e Pakistan non si è mai risolto dal 1947, e, anche se si è lontani dai tempi delle tre guerre aperte tra i due Paesi, continua a provocare circa trecento decessi l’anno. Anche il conflitto tra Israele e Palestina fa parte di questo gruppo (286 le morti nel 2018), al pari di quello tra il governo turco e la minoranza curda, o ancora i conflitti interni – spesso legati al narcotraffico – in Colombia, fermandoci, anche in questo caso, a quelli più conosciuti nell’emisfero occidentale.
In questo breve e non esaustivo scorcio, per l’appunto, ci siamo limitati a citare solamente un numero ridotto di guerre, circoscrivendo l’elenco a quelle più sanguinarie o più mediatizzate e dunque note al grande pubblico. Considerando il solo continente africano, tuttavia, ci preme sottolineare come, dei 54 Stati indipendenti riconosciuti dalle Nazioni Unite, ben ventinove (quindi più della metà) sono attualmente attraversati da forme di conflitto. Tra questi troviamo la già citata Nigeria, che con i suoi 190 milioni di abitanti è il Paese più popoloso d’Africa, o la Repubblica Democratica del Congo, il secondo Stato più esteso dopo l’Algeria, martoriata da numerose guerre regionali per il controllo delle tante ricchezze nascoste nel sottosuolo di questo Paese. Anche la stessa Algeria, del resto, non è esente dalla presenza di alcuni gruppi di estremisti islamici sul proprio territorio. Agli Stati indipendenti, andrebbero poi aggiunti alcuni territorio che reclamano la propria indipendenza, su tutti il Sahara Occidentale, da decenni sotto il giogo dell’occupazione marocchina, o le varie aree della Somalia che affermano la propria sovranità rispetto al governo di Mogadiscio.
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Anche in Asia, la situazione non è delle migliori: su 48 Stati indipendenti riconosciuti dalle Nazioni Unite, esattamente la metà (ventiquattro) è coinvolto in qualche forma di conflitto. Anche in questo caso vanno aggiunti territori che reclamano la propria indipendenza, in particolare la Palestina ed il Kurdistan. I conflitti più gravi del continente asiatico, come visto, sono concentrati in Medio Oriente o in Asia centrale, ma non mancano casi anche in Asia orientale, tra i quali spicca quello del Myanmar, senza dimenticare i conflitti interni in Indonesia e la guerra della droga nelle Filippine.
La situazione globale, forse, non è percepita correttamente in Europa occidentale, dove una vera guerra non si vede dal 1945: certo, nel passato recente vi sono state spinte indipendentiste particolarmente violente (Paesi Baschi, Irlanda del Nord), senza dimenticare gli “anni di piombo” italiani o alcuni attentati particolarmente sanguinosi negli ultimi anni, ma si tratta di episodi che nulla hanno a che vedere con lo stato di conflitto permanente al quale sono sottoposti milioni di persone ogni giorni sul pianeta. Tuttalpiù, aria di guerra si respira ai confini orientali del nostro continente, in Ucraina o nel Caucaso, ma non in quello che molti considerano ancora ostinatamente a considerare il “centro del mondo”, secondo un’antiquata visione eurocentrica.
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Infine, è il caso di accennarlo, bisognerebbe fare un esame di coscienza e ricordare che gran parte di quei conflitti, soprattutto quelli persistenti in Africa ed in Medio Oriente, hanno spesso visto lo zampino dei governi occidentali, che si sono “preoccupati” di generare ed alimentare tali situazioni: tanto per fare un esempio, la stessa Hillary Clinton ha ammesso pubblicamente il ruolo degli Stati Uniti nell’alimentare la situazione di guerra permanente in Afghanistan. Delle responsabilità naturalmente non univoche, bensì da condividere con quella dei governi e di alcuni gruppi politici organizzati dei Paesi in questione, fatto che comunque non basta a scagionare gli autori di tali ingerenze.