La Francia si è scoperta negli ultimi giorni vassallo europeo degli Stati Uniti dopo una lunga tradizione di non allineamento nei confronti di Washington: il demerito va (quasi) tutto ad Emmanuel Macron.
IL TRADIZIONALE ASTIO FRANCESE PER GLI USA
Pur essendo sempre parte integrante del blocco occidentale sin dalla fine della seconda guerra mondiale, la Francia ha creato non pochi grattacapi agli Stati Uniti fino a tempi recenti. Il governo parigino, infatti, ha sempre tentato di smarcarsi dalla politica di Washington, nel tentativo di mantenere un proprio prestigio internazionale ed una propria sfera d’influenza nell’ex impero coloniale.
Leader di questa posizione fu a lungo il generale Charles De Gaulle, protagonista della liberazione dell’occupazione nazista, nonché fondatore e primo presidente della Quinta Repubblica. Chiamato nel 1959 a risolvere la crisi della Quarta Repubblica, accentuata dal conflitto con l’Algeria, De Gaulle riaffermò il prestigio francese a livello internazionale con la promozione del programma atomico e rinnovando i propri rapporti con i nuovi stati indipendenti derivanti dalle ex colonie. Dwight Eisenhower, presidente statunitense dell’epoca, non vide di buon occhio le politiche di De Gaulle, volendo fare della Gran Bretagna l’unico leader dell’Europa Occidentale, e si rifiutò di assistere la Francia nel proprio programma nucleare.
Dopo molte tensioni, De Gaulle annunciò l’uscita della Francia dalla struttura militare della NATO, la quale nel 1966 fu costretta a trasferire il proprio quartier generale europeo da Parigi a Bruxelles. Grazie a questo riposizionamento a “metà del guado”, De Gaulle riuscì ad instaurare rapporti rilevanti sia con i Paesi non allineati che con l’Unione Sovietica, sfruttando anche la forza del Parti Communiste Français (PCF), il partito comunista più importante d’Occidente insieme a quello italiano. La Francia, inoltre, si oppose sin da subito alla guerra statunitense in Vietnam, Paese che fino a pochi anni prima era stato proprio colonizzato dai transalpini.
Anche dopo la fine della presidenza di De Gaulle, nel 1969, Georges Pompidou mantenne relazioni amichevoli ma non troppo calorose con gli Stati Uniti. La Francia lanciò l’idea della costruzione di un esercito europeo per diminuire l’influenza degli Stati Uniti e della NATO nel continente, e, nel 1984, il socialista François Mitterrand si fece promotore della costruzione del gasdotto Urengoy–Pomary–Uzhgorod, finalizzato al trasporto del gas sovietico in Europa occidentale, fortemente osteggiato da Washington.
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L’ultimo importante segnale di dissenso francese nei confronti di Washington risale invece al 2003, quando Jacques Chirac, forte del sostegno di Germania, Russia e Cina, si schierò apertamente contro l’invasione statunitense dell’Iraq (più per interesse che per altre ragioni, ma questo è un altro discorso). Dominique de Villepin, ministro degli esteri in quegli anni, fu tra i più aspri critici internazionali delle politiche guerrafondaie di George W. Bush, e scrisse addirittura un libro intitolato “Lo squalo e il gabbiano”, dove lo squalo a stelle e strisce divorava il gabbiano francese ed europeo.
LA SVOLTA DI SARKOZY E LA GENUFLESSIONE DI MACRON
A dare una svolta atlantista alla politica estera francese è stato Nicolas Sarkozy, che nel 2008 annunciò il ritorno della Francia a pieno titolo nella NATO, prima di rendersi protagonista del tristemente noto intervento militare in Libia.
Dopo il nulla cosmico rappresentato dalla presidenza di François Hollande, politicamente una macchietta e nulla più, ecco arrivare il giovane Emmanuel Macron, ultra-europeista ed ultra-atlantista, a sancire la definitiva genuflessione della Francia agli interessi d’oltreoceano: non è un caso che Donald Trump si sia precipitato a visitare il nuovo inquilino dell’Eliseo appena due mesi dopo l’inizio della presidenza del leader di En Marche!.
L’atlantismo di Emmanuel Macron si è rivelato in tutto il suo splendore fino all’intervento militare in Siria, dove il presidente francese è stato il più attivo e fervente sostenitore del bombardamento, dimostrando il proprio entusiasmo bellico in ogni dichiarazione, ed addirittura attribuendosi il merito di aver convinto Trump a mantenere le proprie truppe nel Paese mediorentale.
Il problema è che, nella politica francese odierna, la maggioranza delle forze politiche hanno preso posizione a favore del “bombardamento umanitario” in Siria. Scandalose, da questo punto di vista, le parole di Benoît Hamon, l’uomo in grado di portare il Parti Socialiste ai minimi storici (con la complicità non da poco del già citato Hollande), che applaude Emmanuel Macron per le bombe, ma che lo rimprovera per non aver organizzato un bombardamento collettivo europeo: “L’uomo che è stato punito stanotte per aver violato, usando le armi chimiche contro il suo popolo, una norma universale dell’ordine internazionale, non è solo il nemico dei siriani. È anche nostro. Siamo lieti che Emmanuel Macron finalmente lo riconosca“, ha dichiarato l’ex candidato alle presidenziali. “Anche unilaterale, un colpo mirato, proporzionato, chiaro nelle sue intenzioni pone un limite salutare. In effetti, l’impunità incoraggia i criminali. Il limite posto all’utilizzo di armi chimiche porterà un minimo di tregua ai civili e preserverà la credibilità della Francia. Ricordiamo che Emmanuel Macron aveva tracciato una linea rossa che ha impegnato il nostro paese, è essenziale che sia rispettata. Il vero problema è che la logica delle linee rosse non è una politica internazionale, anzi rivela l’assenza e persino peggio: indica al destinatario l’intero spazio dei crimini che può commettere senza paura e i limiti che inevitabilmente testerà. Da questo punto di vista siamo preoccupati per la mancanza di visione del Presidente della Repubblica. Mentre questa situazione richiede un’azione europea concertata in cui la Francia avrebbe una legittimità innegabile e darebbe un senso alla politica estera dell’Unione, scopriamo che il suo approccio a breve termine ci coinvolge in alleanze che confondono il messaggio che noi desideriamo inviare. È tempo di ricordare che la vera lotta per la Siria, contro la riabilitazione internazionale del regime siriano da parte della Russia, è quella della paziente costruzione di un’alternativa insieme agli stessi siriani, è una lotta che si svolgerà anche a Bruxelles, con il supporto dei nostri partner europei”.
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Fuori dal coro si leva solamente la voce di Jean-Luc Mélenchon, il leader del raggruppamento di sinistra France Insoumise: “La Francia sta prendendo parte ad un intervento militare deliberato che tutto il mondo sta osservando”, ha dichiarato all’Assemblée Nationale, l’equivalente della nostra Camera dei Deputati. “Il ricorso alle armi chimiche è vietato, ed è a Parigi, su iniziativa francese, che è stata adottata la Convenzione contro l’uso delle armi chimiche, nel 1993. Ma non dimentichiamo che molti Paesi si rifiutarono di firmare il divieto, proposto dalla Francia, dell’uso di armi batteriologiche”. Mélenchon è poi passato all’attacco: “Siamo intervenuti militarmente nell’area dove si trovano il 42% delle riserve mondiali di gas ed il 47% delle riserve mondiali di petrolio, dunque non facciamo finta di essere intervenuti con l’unica ragione di rispettare le risoluzioni dell’ONU, altrimenti saremmo dovuti intervenire anche in Palestina o per difendere i curdi nello stesso territorio. Ed è a questo punto, con la scusa della morale e delle risoluzioni ONU, che siamo intervenuti senza prove. Siamo intervenuti proprio quando gli organismi internazionali preposti stavano svolgendo la propria inchiesta sull’uso di armi chimiche. Inoltre, abbiamo agito senza mandato dell’ONU, e penso che per la Francia sia il colpo più duro assestato contro la propria diplomazia. E ci siamo mossi dopo che l’Unione Africana ha condannato il modo di fare degli occidentali, che si muovono secondo logiche neocoloniali senza tenere conto del diritto dei popoli. Noi siamo per un mondo ordinato, dove il diritto ha il predominio sulla forza. È finito il tempo in cui un solo Paese poteva decidere per tutti”. Ogni riferimento è puramente casuale.