Un punto che non serve a nessuno. Di solito i giornalisti sportivi utilizzano questa espressione per commentare una partita di calcio il cui risultato di pareggio non è utile a nessuna delle squadre in campo. Con le medesime parole è possibile descrivere l’esito della tragicomica trattativa tra il governo e la Commissione europea in merito alla legge di bilancio. Da un lato, come ampiamente prevedibile, gli ambasciatori giallo-verdi devono rivedere al ribasso i propri desiderata, nonostante le ripetute – e irreali – promesse di non arretrare di un millimetro dinanzi alle richieste di Bruxelles. Dall’altro le istituzioni europee, per bocca di alcuni rappresentanti, non perdono occasione per cercare l’incidente con l’Italia e scavare un solco ancora più profondo con l’opinione pubblica.
Oggetto della contesa, come noto, è il valore del rapporto deficit/PIL: a scaldare ancor di più gli animi è intervenuto Emmanuel Macron, che per placare la rabbia dei gilet gialli ha annunciato misure che potrebbero portare il deficit francese al 3,5% del PIL nel 2019, dunque ben oltre l’ormai famoso limite del 3%. È inevitabile che il cittadino comune, non addetto ai lavori, si chieda perché alla Francia sia concesso un eventuale sforamento, mentre l’Italia sia costretta ad estenuanti negoziati. Le risposte sono altrettanto note: il debito di Parigi è inferiore a quello italiano – dunque più sostenibile –, l’economia e il sistema politici francesi sono più credibili e solidi rispetto ai nostri. In verità, la questione è non così automatica e sbrigativa.
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Macron non poteva scegliere momento peggiore per annunciare questo nuovo pacchetto di misure. La Commissione europea, infatti, solo lo scorso giugno ha chiuso la procedura d’infrazione nei confronti della Francia che durava dal lontano 2009 per deficit eccessivo: Parigi attende un deficit al 2,6% per il 2018 e del 2,8% per il 2019. Il commissario europeo agli Affari economici, Moscovici, è apparso il più smemorato e confuso: dapprima, affermando che «la Commissione europea sorveglia il debito italiano da tanti anni, non l’abbiamo mai fatto con la Francia», poi mostrandosi indulgente con il proprio Paese in difficoltà, asserendo che un deficit francese oltre il 3% «può essere preso in considerazione, anche se in modo limitato, temporaneo ed eccezionale», infine dichiarando di essere stato frainteso e che servono «sforzi di dialogo, di discussione, non di cifre». Invero, le incertezze di Moscovici riflettono alle perfezione la traballante condizione dell’economia francese.
Il quadro macroeconomico d’Oltralpe, infatti, non è decisamente quello di un Paese in buona salute che possa godere della fiducia illimitata e aprioristica dei mercati. Dopo un buon 2017, l’economia francese ha rallentato, registrando un calo della produzione industriale influenzato anche dai pessimi segnali che vengono dal settore manifatturiero. La previsione di crescita del PIL all’1,7% difficilmente verrà rispettata, anche in seguito alle conseguenze negative prodotte dalle ripetute proteste dei gilet gialli. Se allarghiamo la prospettiva temporale, Parigi è quasi sempre agli ultimi posti nei principali indicatori economici, come ben documentato da Truenumbers.
Prendendo in esame la crescita cumulata del PIL negli ultimi quattro anni, la Francia è penultima, con un 6,5%, davanti solo all’Italia – 4,5% –, lontana dalla Germania e più che doppiata dalla Spagna. È all’ultimo posto per crescita degli occupati, con un aumento di soli due punti percentuali. Il cuneo fiscale medio su un dipendente è del 47,6%, altissimo, e sugli stessi livelli di quello italiano. È penultima negli investimenti, cresciuti negli ultimi cinque anni dell’11,8%, di poco davanti all’Italia che segna un aumento del 10,7%. Il deficit commerciale, infine, ha toccato i 62,3 miliardi, il valore più alto dal 2011 e consolidando così un trend negativo iniziato nel 2015. La grandeur economica della Francia è null’altro un’illusione ben venduta. A ciò, inoltre, si aggiunge un quadro politico che non può certo suggerire stabilità; al contrario, l‘Eliseo traballa come mai prima nella storia della Quinta Repubblica.
[sostieni]
Al di là di tali considerazioni, sorprende come molti analisti guardino il dito e non la luna. Mentre gli azzeccagarbugli economici si sfidano a colpi di decimali, grafici e tabelle, brandendo calcolatrici come spade, sussiste un oggettivo problema di fondo che si finge di non vedere. Un’Unione europea che fa dipendere la propria sopravvivenza da uno 0,4% in più o in meno e che si affanna a far valere una sorta di sovranità economica à la carte non ha né un futuro né un presente.
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