Già nel 1996, in occasione della seconda elezione di Bill Clinton alla Casa Bianca, Noam Chomsky notava come le presidenziali statunitensi, oltre a diventare sempre più costose ad ogni campagna quadriennale, seguivano la tendenza alla diminuzione della libertà e della democrazia formale. In cima alla piramide delle cause di questo lento processo storico, il pensatore di origine ebraica poneva il potere delle multinazionali ed i loro finanziamenti nei confronti dei candidati dei due partiti principali: il Partito Democratico ed il Partito Repubblicano. Oggi, nel confronto tra la democratica Hillary Clinton ed il repubblicano Donald Trump, non c’è motivo di credere che questa situazione sia migliorata, anche se, come sempre, anche questo confronto elettorale verrà seguito in tutto il mondo con grande, seppur ingiustificata, passione.
In effetti, nelle campagne elettorali statunitensi i finanziamenti da parte delle multinazionali ricoprono un ruolo fondamentale. Negli Stati Uniti, infatti, vi sono grandi differenze, rispetto ai sistemi europei, in quella che viene chiamata la legislazione elettorale di contorno, ovvero tutte le norme che regolano le elezioni ma che non riguardano strettamente il sistema elettorale e la distribuzione dei seggi. Nei Paesi europei, come l’Italia, vi sono regole molto rigide che regolano il finanziamento dei partiti e delle campagne elettorali, e vi sono altre norme altrettanto strette riguardanti la par condicio, ed in particolare l’esposizione mediatica dei vari candidati – anche se spesso non vengono del tutto rispettate.
Al contrario, negli USA sono quasi sempre i finanziamenti delle multinazionali a decidere l’esito delle elezioni, e conseguentemente ad influenzare in maniera decisa le politiche prese dalle amministrazioni che si susseguono a Washington. Per non rimanere “scoperte”, le grandi corporations si assicurano la benevolenza di entrambi i candidati principali, finanziandoli tutti e due. Questo spiega la similitudine delle politiche di repubblicani e democratici in molti ambiti, mentre sono generalmente temi di secondaria importanza quelli nei quali si concentra il conflitto politico: il sistema economico, il dominio delle multinazionali e delle grandi banche non viene mai messo in discussione. Altra conseguenza di questo sistema che prevede una campagna elettorale fortemente sbilanciata verso i due partiti più ricchi, è l’apparente inesistenza di altri candidati: nel 2012, ad esempio, nessuno si è accorto della presenza di una dozzina di altri pretendenti alla Casa Bianca, in rappresentanza di quello che va sotto il nome di Third Party (ovvero tutto ciò che non è né democratico né repubblicano).
Dimostrato che, di fatto, il sistema statunitense assicura la propria conservazione attraverso l’oscuramento di tutti i partiti ed i candidati che propongono qualcosa di realmente diverso dal duopolio repubblicano-democratico, vediamo con maggior puntualità perché questi due partiti rappresentano un realtà due facce della stessa medaglia. Prendiamo ancora come esempio le presidenziali del 2012, e più precisamente il confronto tra il democratico Barack Obama – poi eletto – ed il repubblicano Mitt Romney. Innanzi tutto, notiamo che Obama ha ricevuto finanziamenti decisamente superiori rispetto al suo avversario, cosa che di fatto gli ha assicurato la vittoria. In secondo luogo, vediamo come le fonti dei finanziamenti siano spesso le medesime, con una chiara scelta strategica da parte di banche e multinazionali: finanziare Obama, ma tenersi coperti nel caso di una vittoria di Romney. È il caso, ad esempio, di Goldman Sachs (oltre un milione di dollari ad Obama, 367.200 dollari a Romney), JP Morgan (808.000 dollari ad Obama, 112.000 dollari a Romney), Citigroup (736.000 dollari ad Obama, 57.000 dollari a Romney), Morgan Stanley (512.000 dollari ad Obama, 200.000 dollari a Romney), etc…
Ma le assurdità delle presidenziali a stelle e strisce non sono finite qui: vediamo un esempio ancora più estremo. Per chi crede ancora alla farsa di queste elezioni, Barack Obama e George W. Bush si troverebbero esattamente agli antipodi: eppure, ancora una volta, vediamo come le campagne elettorali di Obama e Bush siano state sostenute dagli stessi grandi “contributors”, come vengono chiamati oltreoceano: Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley e Citigroup furono anche tra le principali fonti di finanziamento nella campagna del presidente repubblicano nel 2004, anche se le cifre erogate per Obama sia nel 2008 che nel 2012 sono significativamente superiori, tranne che per Morgan Stanley.
Oltre a questi giochi che avvengono dietro le quinte, vi è poi lo spettacolo che va di scena sul palcoscenico visibile a tutti, quello per il comune cittadino per il quale la democrazia si riassume nell’andare a votare ogni quattro anni (nel caso delle presidenziali statunitensi): una sempre maggiore personalizzazione del potere, in pieno allineamento con quello che è lo Stato-spettacolo a stelle e strisce.
Volendo, infine, vi sarebbero anche forti critiche da muovere al sistema elettorale in sé, con il gioco dei grandi elettori che va a detrimento della volontà popolare: regole che spesso variano da stato a stato, vista la struttura federale, portano infatti alla scelta, da parte dei cittadini, di 538 grandi elettori, che poi scelgono in modo indiretto il presidente. Ad entrare nella Casa Bianca sarà colui che ne ottiene almeno 270, anche se vi è una piccola probabilità di pareggio: in questo caso, verificatosi solamente nel 1801 con Thomas Jefferson e nel 1825 con John Quincy Adams, sarebbe addirittura la House of Representatives a scegliere il nuovo presidente.
Fatte le dovute considerazioni riguardanti la legislazione elettorale di contorno ed il sistema elettorale degli Stati Uniti, sorge spontanea una considerazione: forse dovrebbe essere proprio questo Paese ad imparare il senso della democrazia, piuttosto che esportarla verso altri lidi. Qualcuno che, secondo Washington, andrebbe definito come un “malvagio dittatore” (Fidel Castro), scrisse così: “La democrazia per me significa che innanzitutto i governi operino intimamente vincolati con il popolo, nascano dal popolo, abbiano l’appoggio del popolo, e si consacrino interamente a lavorare ed a lottare per il popolo e per gli interessi del popolo”. Ma ciò sarebbe possibile solamente se la situazione della democrazia-farsa non fosse voluta: i grandi gruppi di potere, al contrario, sanno bene che questo teatrino gli permette di continuare a perpetrare i loro soprusi a livello mondiale e di conservare quell’impero globale che si sono tanto meticolosamente costruiti.
BIBLIOGRAFIA
CHOMSKY, N. (1998), The Common Good
LANCHESTER, F. (2004), Gli strumenti della Democrazia
MÚÑIZ, M. (1998), Elecciones en Cuba: farsa o democracia?
PATTERSON, J. T. (1988), La presidenza americana dal 1940