La reazione in Francia alla Loi Travail, da molti visto come l’equivalente gallico del Jobs Act, è stata finora molto intensa, e gli scontri violenti con la polizia, e tutta una serie di scioperi sistematici indetti dai sindacati, che rischiano di paralizzare il paese, sono ormai l’ordine del giorno. Nel frattempo anche in Belgio sta crescendo l’opposizione alla legge Peteers, equivalente locale della Loi Travail.
Ce ne parla Marta Fana, giovane dottoranda in Economia del lavoro, della corruzione e della disuguaglianza presso l’Institut d’Etudes Politiques a Parigi, è uno dei tanti cervelli in fuga dall’Italia. Ultimamente l’abbiamo vista partecipare a più di un dibattito pubblico in patria, mentre si era già fatta notare per le sue posizioni radicali a Roma durante il congresso Cosmopolitica della Sinistra Italiana lo scorso febbraio.
Il governo di Hollande ha cercato di far passare la Loi Travail grazie a una legge particolare. Ce ne può parlare?
Sì, ha utilizzato uno strumento che è un mezzo di forzatura parlamentare, il 49.3, che è un po’ l’equivalente della nostra fiducia.
In pratica come funziona?
Il Consiglio dei Ministri delega l’approvazione di una legge al premier, in questo caso Valls, invece che al parlamento, senza un dibattito parlamentare.
Quindi il parlamento non può far nulla?
Beh, in realtà ha 24 ore di tempo per presentare una mozione di sfiducia.
E ciò non è avvenuto?
Sì, ma è stata votata solo dalla destra, mentre la sinistra dissidente all’interno del partito socialista di Hollande non è riuscita ad aggiungere un numero di voti sufficienti per bloccarla.
Com’è in generale la sinistra all’interno del partito rispetto a quella all’interno del PD?
Si può dire che rispetto alla minoranza dem italiana regge un po’ di più, è più dialettica e se vogliamo agguerrita, ma la linea di fondo non cambia: non rompono l’asse politico, ormai in netto contrasto con il programma elettorale e la storia del partito.
Tornando alla Loi du Travail, qual è il prossimo step?
Il passaggio al senato.
Perché la destra si è opposta alla legge?
Ironicamente, perché troppo poco… liberista.
A questo punto quali sono le chance che passi definitivamente?
Non è detto che passi. Ma se dovesse passare, ciò farebbe comodo agli oppositori di destra di Hollande, i quali, al prossimo turno elettorale, potranno incolparlo dello sfacelo che questa legge creerà.
Martinez (segretario CGT n.d.r.) afferma che il 74% dei francesi è opposto alla Loi Travail, ma Hollande sembra per ora indifferente a ciò…
Questa è la tipica reazione anti-democratica di molti governi europei.
Quindi questo potrebbe essere un altro sintomo di quello che Varoufakis, lanciando il suo DiEM25 chiama “deficit di democrazia”?
Certo, perché al di là della reazione di piazza, il punto chiave è che è saltato un vero, sano dibattito sia in parlamento che nella società in generale. E’ stato un puro e semplice diktat.
Il caparbio fronte pro-Loi Travail sembra incrinarsi: mentre 56 deputati di sinistra hanno inviato una lettera a Hollande, Valls pare pronto a riconsiderare l’articolo 2, che da priorità agli accordi aziendali…
In realtà Valls non ha nessuna intenzione di rivedere l’articolo 2, mentre il Ministro delle Finanze ha appena sostenuto, e pubblicamente, che il governo deve andare avanti. La fronda dissidente nel PS non ha che da bloccare la legge in seconda lettura. Il resto sono chiacchere…
Rimane il fatto che, storicamente, nella società francese, diversamente che in quella italiana sembra esserci una maggiore capacità reattiva.
E sì, esiste una maggiore capacità di mobilitazione collettiva, e non ristretta a singoli settori della società. E poi, storicamente parlando, c’è una novità.
Quale?
Tradizionalmente, se vogliamo fin dal 1789, c’è sempre stata una contrapposizione tra Parigi e tutto il resto del paese. In questo frangente la mobilitazione ha coinvolto molte altre città, oltre la capitale. Inoltre il conflitto non è solo relativo alla Loi Travail, ma anche a molte altre sfere di precarizzazione della vita e della democrazia.
Può parlarci del fenomeno Nuit Debout?
E’ una composizione di vari movimenti nato il 31 marzo, dopo lo sciopero generale, che cerca di riprendersi la piazza e che rivendica la convergenza delle lotte, dal lavoro alla casa, al post-colonialismo.
Può esser visto un po’ come la versione francese di Occupy Wall Street o del M-15, ossia gli Indignados?
Nello spirito sì, ma la differenza è che a tutt’oggi non è chiaro l’impatto e il processo politico che intende determinare.
Quali potranno essere gli sviluppi di questo movimento?
E’ da vedere. Una cosa è certa: si muove ovviamente al di fuori della sfera istituzionale e potrebbe dimostrarsi incisivo nel corso delle prossime presidenziali in arrivo. E poi, pur essendo nato a Parigi, ormai investe tutta la Francia.
Le forze dell’ordine sono tutte schierate con il governo o esiste qualche incrinatura a favore della ribellione?
Beh, le forze dell’ordine difendono l’ordine costituito e lo stato d’emergenza, rinnovato la scorsa settimana fino al 16 luglio.
Quali sono, in linea di massima, le similarità tra la Loi Travail e il Jobs Act?
Entrambe le leggi hanno in comune il tentativo, a livello europeo, di eliminare quelle che son viste come rigidità nel mercato del lavoro, secondo i dettami della teoria liberista neo-classica, rendendo quindi più facile il licenziamento e riducendo la possibilità di trattativa da parte dei sindacati.
E le differenze?
La grossa differenza è che in Francia c’è un mercato del lavoro molto più rigido che in Italia e quindi con la Loi Travail si vanno ad attaccare dei pezzi del diritto del lavoro molto più avanzati.
Per esempio?
C’è in ballo la questione delle 35 ore lavorative settimanali. Se si supera questo limite, bisogna poi calcolare gli straordinari e la nuova legge propone una contrattazione sul compenso decentrata, a livello di singola azienda, e non più secondo un contratto nazionale, e quindi con un margine di retribuzione molto più basso di quello attuale.
La stessa Confindustria ha ammesso che il Jobs Act è in pratica un copia e incolla di una loro proposta. Lo stesso vale per la Loi Travail?
Sì e infatti nel corso della mobilitazione contro la legge si è portata avanti la richiesta che ci sia una separazione chiara tra le scelte di governo e il Medef (equivalente francese della Confindustria, n.d.r)
Dietro tutto questo c’è anche lo zampino dell’Europa dell’austerity?
Per forza.
Si può dire che questa nuova flessibilità nel rapporto debito PIL offerta dalla UE al governo Renzi è forse un falso regalino?
In un certo modo sì, perché poi si dovranno fare i conti con le clausole di salvaguardia. Il problema è che ad avvantaggiarsene saranno certi ceti sociali, a scapito di quelli più deboli attraverso una tassazione indiretta.
Quali sono le prime tre cose che farebbe se diventasse domani Ministro dell’Economia?
35 ore di lavoro alla settimana, abolizione dei voucher e aumento dei minimi contrattuali, un grande piano d’investimenti, a cominciare da un Piano Casa e un piano di sviluppo per università e scuola.
Qualche cosina per l’ambiente?
Quello rientrerebbe nel Piano Casa – ma non solo – attraverso un utilizzo e riutilizzo ecosostenibile del suolo pubblico.
E soldi per tutto questo dove andrebbe a beccarli?
Attraverso una tassazione più progressiva che vada a incidere su redditi e ricchezze più alti. Trovo assurdo che l’Italia sia l’unico paese senza una vera tassa di successione.
Per giunta l’Italia è al primo posto nella UE per l’evasione fiscale…
Beh, questo problema c’è sempre stato, anche in periodi con una politica economica più progressista, come gli anni ’60. Una correzione va fatta, certo, ma nell’ambito di quadro più ampio.
Sono di questi giorni gli ultimi dati dell’ISTAT sul pesante calo nella produzione industriale in Italia. Che fare?
Bisogna decidere in quali settori investire ex novo e quali recuperare, ma è anche il caso di ripensare sia la proprietà di alcuni settori sia il loro uso. Penso all’auto: servirebbe un buon impulso statale per la conversione elettrica ad esempio. Ma oltre gli investimenti dobbiamo far ripartire i consumi e lo si può fare solo aumentando di molto il potere d’acquisto delle famiglie meno abbienti.