Il mondo, per il ventiquattresimo anno consecutivo, si è espresso contro l’embargo economico che gli Stati Uniti continuano a perpetrare dal 1960 nei confronti di Cuba, impedendo di fatto una normale attività economica, commerciale e finanziaria da parte della più grande isola dei Caraibi. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha infatti votato una nuova risoluzione il 28 ottobre 2015 con 191 voti favorevoli e solamente due contrari, quello degli Stati Uniti stessi e quello del suo alleato incondizionato, Israele. Il verdetto è il più netto della storia, con Washington che ha oramai perso in questa causa tutti i suoi alleati più vicini, tranne Tel Aviv. Tutti i Paesi europei, comprese l’Italia e la Gran Bretagna, votano oramai da anni contro l’embargo, così come il Canada, il Messico, Panama e la Colombia, per citare alcuni Paesi che intrattengono stretti rapporti con gli USA. Alla fine anche Palau, gli Stati Federati di Micronesia e le Isole Marshall, piccoli arcipelaghi dell’Oceania, hanno abbandonato il partito dell’astensione e si sono schierati contro gli Stati Uniti, ai quali devono di fatto la propria esistenza (vedi l’approfondimento in basso). Washington ha dunque incassato una pesante sconfitta dal punto di vista diplomatico, visto che oramai più nessuno appoggia la sua insostenibile ed immotivata posizione nei confronti di Cuba.
La votazione si è resa ancora una volta necessaria in quanto, nonostante i recenti riavvicinamenti tra Washington e L’Avana, con la storica riapertura delle rispettive ambasciate, e qualche concessione da parte di Barack Obama, come l’eliminazione di Cuba dalla lista – redatta da Washington ai tempi di George W. Bush – dei Paesi che finanzierebbero il terrorismo, di fatto non ci sono stati grandi cambiamenti. Ad esprimersi in questo senso è stato il Ministro degli Esteri Bruno Rodríguez Parrilla, che ha fatto notare come il presidente statunitense non abbia per ora mantenuto le sue promesse fatte in campagna elettorale. Secondo Rodríguez, l’embargo rappresenta una “violazione flagrante, massiccia e sistematica dei diritti umani di tutti i cubani, ed è contraria al diritto internazionale al pari di un atto di genocidio”, in quanto il blocco economico resta “il principale ostacolo per lo sviluppo economico e sociale del nostro popolo”. Secondo le stime, dal 1960 ad oggi Cuba avrebbe perso più di 8,3 milioni di dollari a causa dell’embargo, davvero molto per un Paese di poco più di undici milioni di abitanti. Il Ministro ha sottolineato i miglioramenti nelle relazioni tra i due Paesi sotto la presidenza Obama, ma ha anche fatto notare i cambiamenti effettivi non si siano ancora visti, tant’è che gli Stati Uniti hanno espresso, attraverso il loro voto contrario, la volontà di continuare con le loro politiche ostili nei confronti di Cuba, facendo segnare, di fatto, un passo indietro in questo contesto. Rodríguez ha concluso sottolineando come l’eliminazione dell’embargo sia una condizione necessaria alla normalizzazione dei rapporti tra i due Paesi, chiedendo agli USA di rinunciare alle pretese di voler imporre cambiamenti interni allo stato cubano, che di fatto non rappresentano altro che un’ingerenza nelle politiche interne d un altro stato indipendente e sovrano.
Nello scorso mese di luglio, al momento della riapertura delle ambasciate, anche il Presidente cubano Raúl Castro avevano sottolineato che “non è possibile concepire, finché sarà mantenuto l’embargo, relazioni normali tra Cuba e gli Stati Uniti”, ricordando anche che gli USA conservano la base navale di Guantánamo, occupando illegalmente parte del territorio cubano. Il governo cubano ha infatti grandi aspettative nei confronti di Barack Obama, sapendo che le elezioni presidenziali statunitensi potrebbero porre fine all’opportunità di migliorare le relazioni tra i due Paesi. L’Avana punta infatti alla cancellazione definitiva dell’embargo da parte di Barack Obama, perché difficilmente il prossimo presidente a stelle e strisce sarà altrettanto disponibile in questa direzione, ma allo stesso tempo sarà molto difficile, se non impossibile, tornare indietro una volta rotte le catene del blocco economico.
APPROFONDIMENTO: PALAU, MARSHALL E MICRONESIA
La Repubblica di Palau ha ottenuto la propria indipendenza formale dagli Stati Uniti nel 1994, ma i rapporti tra i due stati restano molto stretti, come dimostrato dall’accordo noto come COFA (Compact of Free Association).
Le Isole Marshall hanno invece ottenuto l’indipendenza dagli stessi USA nel 1979, ma nel 1986 anche le Marshall hanno firmato un accordo COFA, rinnovato nel 2003. Gli USA mantengono una base militare nell’arcipelago, mentre l’accordo COFA prevede che gli Stati Uniti provvedano a risarcire lo stato dei test nucleari svolti nella regione, il che costituisce un’importante fonte di entrate per un arcipelago che conta meno di 60.000 abitanti.
Gli Stati Federati di Micronesia hanno a loro volta ottenuto l’indipendenza nel 1979, così come hanno stipulato un COFA nel 1986, rinnovato nel 2004. Per questo stato, la maggiore fonte di entrate è costituita dagli aiuti statunitensi, che hanno provveduto a fornire quasi 2 miliardi di dollari negli ultimi 25 anni.
I tre arcipelaghi, insieme, formava in passato il Territorio Fiduciario delle Isole del Pacifico, amministrato dagli Stati Uniti sin dalla fine della seconda guerra mondiale, quando sottrassero queste isole ai giapponesi. Del Territorio Fiduciario facevano parte anche le Isole Marianne, che tutt’ora non sono indipendenti dagli USA.
Vista la stretta dipendenza economica di questi stati arcipelagici, possiamo affermare che la loro effettiva autonomia dagli Stati Uniti è molto discutibile. Secondo le statistiche delle Nazioni Unite, infatti, i Paesi che votano più spesso allo stesso modo degli Stati Uniti sono: Israele (84.2%), Isole Marshall (81.8%), Palau (78.4%) e Stati Federati di Micronesia (72.6%)