Domenica 24 giugno, i cittadini della Turchia sono stati chiamati alle urne per le elezioni generali (comprensive di elezioni presidenziali e legislative), nelle quali dovranno esprimersi per eleggere il capo di Stato ed i seicento membri della Grande Assemblea Nazionale Turca (Türkiye Büyük Millet Meclisi, spesso abbreviato in TBMM).
ELEZIONI PRESIDENZIALI: ERDOĞAN RIELETTO AL PRIMO TURNO
Eletto alla presidenza nel 2014, ma già primo ministro della Turchia dal 2003, Recep Tayyip Erdoğan aveva indetto le elezioni anticipate, rispetto alla scadenza prevista del 2019, con il fine di rafforzare il proprio potere. Il capo di Stato, infatti, dopo aver fatto approvare un referendum costituzionale lo scorso anno, ha voluto anticipare in questo modo il passaggio alla repubblica presidenziale, con l’obiettivo di accentrare sulla propria figura un maggior potere.
I risultati pubblicati fino ad ora, con oltre il 99% delle sezioni scrutinate (dunque praticamente definitivi), hanno effettivamente premiato il presidente Erdoğan, che ha ottenuto la maggioranza assoluta, scongiurando, dunque, la possibilità di dover affrontare un secondo turno, nel quale gli altri candidati avrebbero potuto coalizzarsi per formare un fronte compatto contro lo stesso capo di Stato in carica. Sostenuto dal suo partito, l’AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi – Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) e dai fedeli alleati dell’MHP (Milliyetçi Hareket Partisi – Partito del Movimento Nazionalista), Erdoğan ha ottenuto il 52.55% dei suffragi, superando la quota dei ventisei milioni di voti ed imponendosi in sessantatré delle ottantuno province del Paese.
Il successo di Erdoğan, dunque, appare numericamente ancora più schiacciante rispetto a quello ottenuto nel 2014, quando vinse sempre al primo turno con il 51.79% delle preferenze e ventuno milioni di schede in suo favore. A giocare, quest’anno, è stata anche l’altissima affluenza alle urne, pari all’85.27% (contro il 74.13% di quattro anni fa), spiegabile anche con la concomitanza delle elezioni presidenziali con quelle legislative, come previsto dalla riforma costituzionale approvata lo scorso anno. Va comunque detto, però, che l’opposizione ha spesso accusato Erdoğan di utilizzare i mezzi statali a proprio vantaggio, promuovendo la propria campagna elettorale e limitando il raggio d’azione dei suoi avversari, senza andare a scomodare i tanti detenuti politici che sono stati incarcerati nel corso della sua presidenza.
Per quanto concerne gli altri candidati, lo sfidante più pericoloso per il presidente in carica si è confermato essere il cinquantaquattrenne Muharrem İnce, esponente del CHP (Cumhuriyet Halk Partisi – Partito Popolare Repubblicano), formazione di ispirazione socialdemocratica, e parlamentare di questa stessa forza politica dal 2002. Pur non riuscendo nell’obiettivo di costringere Erdoğan al ballottaggio, İnce ha vinto in otto collegi elettorali, conquistando oltre quindici milioni di voti, pari all’8.36%, e vincendo nella città di İzmir.
Come prevedibile, Selahattin Demirtaş, quarantacinquenne dell’HDP (Halkların Demokratik Partisi – Partito Democratico dei Popoli), ha ottenuto un ottimo riscontro nelle circoscrizioni nelle quali si concentra la popolazione curda, vincendo in dieci province ed ottenendo oltre quattro milioni di preferenze (8.36%). Partito di centro-sinistra, l’HDP ed il suo leader, arrestato nel novembre del 2016 con il pretesto dell’autobomba esplosa davanti alla sede della polizia di Diyarbakır, hanno una vocazione su base nazionale, ma i loro consensi restano attualmente fortemente legati alla minoranza curda.
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Meno positivo, invece, il riscontro elettorale per la sessantunenne Meral Akşener, la cui speranza recondita era quella di diventare la prima donna a ricoprire la carica più importante in Turchia. Ex Ministro degli Interni tra il 1996 ed il 1997, Akşener rappresentava il partito İYİ (letteralmente il “buon partito”), forza del centro-destra filoeuropeista, ed ha raccolto il 7.33% delle preferenze. Infine, non hanno ottenuto neppure il punto percentuale gli ultimi due candidati alla presidenza: Temel Karamollaoğlu, settantasette anni, in parlamento dal 1996 ed ex sindaco della città di Sivas, candidato del Partito della Felicità (Saadet Partisi), promotore di posizioni euroscettiche e vicine all’islamismo sunnita si è fermato allo 0.89%; il settantaseienne Doğu Perinçek il candidato del partito di estrema sinistra VATAN (Vatan Partisi – Partito Patriottico), forza che mescola la teoria marxista con quella kemalista, ha invece raggiunto appena lo 0.2%.
ELEZIONI LEGISLATIVE: MAGGIORANZA PER LA COALZIONE DI GOVERNO
Come anticipato, i cittadini sono stati chiamati anche al rinnovo dei seicento membri della Grande Assemblea Nazionale Turca (Türkiye Büyük Millet Meclisi). Alle ultime elezioni, la coalizione favorevole ad Erdoğan raccolse 351 seggi, garantendosi dunque una solida maggioranza governativa, risultato che si è pressappoco ripetuto.
In base ai risultati comunicati fino ad ora, anche questi con oltre il 99% delle schede scrutinate, la coalizione Alleanza Popolare (Cumhur İttifakı), composta dall’AKP di Erdoğan e dai fedeli alleati dell’MHP, avrebbe ottenuto il 57% dei voti, collezionando 343 seggi, con una perdita minima rispetto alla precedente legislatura. Per la precisione, 293 saranno i parlamentari dell’AKP (48.83%), mentre l’MHP (8.17%) potrà contare su cinquanta deputati. Con questo risultato, Binali Yıldırım, braccio destro del presidente, dovrebbe essere confermato come capo del governo, pur disponendo di un potere decisamente inferiore rispetto al passato, a causa della riforma presidenziale di cui abbiamo detto in precedenza.
Interessante, comunque, il riscontro dell’Alleanza della Nazione (Millet İttifakı), che ha visto concorrere insieme il CHP di Muharrem İnce, il partito İYİ di Meral Akşener ed il Partito della Felicità di Temel Karamollaoğlu. La principale coalizione di opposizione, infatti, ha conquistato il 31.83% dei voti, ottenendo 190 seggi (146 per il CHP e 44 per İYİ), con un incremento di cinquantasette deputati. Inoltre, l’Alleanza della Nazione ha vinto in entrambi i collegi elettorali di İzmir ed al centro della capitale Ankara (per le elezioni legislative, settantasette province corrispondevano ad altrettanti collegi elettorali, mentre le province di Bursa e di İzmir sono state divise in due distretti, e quelle di Ankara e di İstanbul in tre).
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Grazie alla propria roccaforte nelle province curde, l’HDP di Selahattin Demirtaş ha superato la doppia cifra, raggiungendo l’11.62% delle preferenze, ed ottenendo 67 seggi, otto in più rispetto alla precedente legislatura, diventando il terzo partito del Paese dopo l’AKP di Erdoğan ed il CHP di İnce. Esclusi dal parlamento, invece, tutti gli altri partiti, che non sono riusciti a superare l’alta soglia di sbarramento, fissata al 10%.
RAFFORZAMENTO DEL POTERE DI ERDOĞAN
I risultati elettorali appena esposti ci consegnano dunque una Turchia saldamente nelle mani di Recep Tayyip Erdoğan. Il presidente ha fatto bene i suoi conti, chiamando le elezioni proprio nel momento a lui maggiormente favorevole per ottenere la maggioranza assoluta e governare senza troppe difficoltà, facendo allo stesso tempo entrare in vigore la riforma costituzionale dello scorso anno, che accentra gran parte dei poteri nelle mani del capo di stato.
Recep Tayyip Erdoğan ha costruito un potere quasi incontrastato in questi quindici anni da protagonista della vita politica turca: s in dalla sua ascesa come capo del governo, l’attuale presidente ha tentato, in forma velata ma non troppo, un processo di “reislamizzazione” di una società decisamente laica, andando progressivamente a radicalizzare le proprie posizioni, fino alla svolta autoritaria innestata con il referendum del 2017.
Per le opposizioni, ora, il margine di manovra sarà davvero ridotto, mentre Erdoğan, piaccia o meno, entra di diritto nel novero dei grandi protagonisti della politica mondiale di questo primo scorcio di XXI secolo.