Domenica 24 giugno, i cittadini della Turchia saranno chiamati alle urne per le elezioni generali (comprensive di elezioni presidenziali e legislative), nelle quali dovranno esprimersi per eleggere il capo di Stato ed i seicento membri della Grande Assemblea Nazionale Turca (Türkiye Büyük Millet Meclisi, spesso abbreviato in TBMM).
IL REFERENDUM DEL 2017
Previste per il novembre del 2019, le elezioni turche sono state anticipate di oltre un anno, come era stato in passato previsto da numerosi analisti e da noi stessi. Per comprenderne le ragioni, dobbiamo ripartire dal referendum tenutosi nell’aprile dello scorso anno.
Il punto cardine del referendum proposto dal capo di Stato, Recep Tayyip Erdoğan, era quello di attribuire il potere esecutivo – e dunque il ruolo di capo del governo – allo stesso presidente, sopprimendo di fatto la figura del primo ministro nelle sue funzioni attuali, posizione occupata dal 2016 da Binali Yıldırım, e trasformando lo Stato in una repubblica presidenziale. Le modifiche proposte furono subito contestate dall’opposizione, accusate di mettere a repentaglio il principio democratico di divisione dei poteri, teorizzato, come noto, dal filosofo francese Montesquieu, figura molto influente nella fondazione dello stato turco e nella redazione della sua costituzione da parte di Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna e laica.
Proprio a partire da queste considerazioni, si registrarono pesanti critiche mosse al referendum da parte dell’opposizione, capeggiata da Kemal Kılıçdaroğlu, leader del CHP (Partito Popolare Repubblicano – Cumhuriyet Halk Partisi), messo in piedi proprio dal padre della Turchia moderna nel 1923. “Se qualcuno dovesse sopprimere gli standard democratici, sarebbe andare contro ciò che sperava Mustafa Kemal Atatürk”, aveva ammonito Kılıçdaroğlu. Contro il referendum si era schierato allora anche l’HDP (Partito Democratico dei Popoli – Halkların Demokratik Partisi), partito filo-curdo guidato da Selahattin Demirtaş, arrestato nel novembre del 2016 con il pretesto dell’autobomba esplosa davanti alla sede della polizia di Diyarbakır.
Nonostante le rimostranze dell’opposizione, i risultati del referendum – al quale prese parte più dell’86% degli aventi diritto – diedero ragione, seppur di poco, al presidente Erdoğan: con il 51.4% delle preferenze, a vincere fu infatti l’opzione del “SÌ”. Il capo di stato, dopo aver esultato per l’esito della consultazione, promise di mettere subito in piedi il processo per la trasformazione dello Stato in repubblica presidenziale, condendo il tutto con la promessa di una pronta riesumazione della pena di morte, abolita nel 2004 in quanto condizione necessaria per l’ingresso nell’Unione Europea – e di fatto non utilizzata già dal 1984. Scontato dire che la vittoria della linea di Erdoğan sopraggiunse soprattutto grazie alle vaste aree conservatrici dell’entroterra, mentre il “NO” ebbe la meglio nelle grandi città come Istanbul e la capitale Ankara.
L’opposizione, dal canto suo, fece notare come circa metà del Paese si fosse mostrata contraria alla riforma, ma soprattutto non mancò di sottolineare le diverse irregolarità registratesi nella campagna elettorale e nelle operazioni di voto. Il fronte del “SÌ” aveva infatti potuto beneficiare del sostegno delle istituzioni statali, che avevano invece boicottato la campagna dell’opposizione, mentre nelle operazioni di spoglio furono contate circa un milione e mezzo di schede senza timbro, che in qualsiasi contesto democratico verrebbero generalmente considerate come un chiaro indizio di brogli.
Ottenuto il successo referendario, Erdoğan avrebbe dovuto attendere il 2019 per vedere le proprie riforme prendere piede, visto che queste sarebbero entrate in vigore solamente dopo le nuove elezioni. Come voluto da uno dei punti del referendum, inoltre, le consultazioni per l’elezione del presidente e per il rinnovo del parlamento si sarebbero dovute tenere simultaneamente. Proprio per questa ragione, non fu difficile prevedere l’incombere di elezioni anticipate, volte a favorire il rafforzamento del potere di Recep Tayyip Erdoğan.
I CANDIDATI PER LE ELEZIONI PRESIDENZIALI
Primo ministro dal 2003 e presidente dal 2014, il sessantaquattrenne Recep Tayyip Erdoğan ha costruito un potere quasi incontrastato in questi quindici anni da protagonista della vita politica, e sarà ancora una volta il grande favorito della tornata elettorale. Sin dalla sua ascesa come capo del governo, l’attuale capo di stato turco ha tentato, in forma velata ma non troppo, un processo di “reislamizzazione” della società, andando progressivamente a radicalizzare le proprie posizioni, fino alla svolta autoritaria innestata con il referendum di cui sopra. Sostenuto dal suo partito, l’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo – Adalet ve Kalkınma Partisi) e dai fedeli alleati dell’MHP (Partito del Movimento Nazionalista – Milliyetçi Hareket Partisi), Erdoğan ha messo in piedi delle modifiche costituzionali tali da svuotare di poteri il parlamento, accentrando invece le competenze nella figura del presidente. I due partiti a sostegno di Erdoğan si sono riuniti, in occasione della campagna per le presidenziali, sotto il simbolo della coalizione denominata Alleanza Popolare (Cumhur İttifakı), che include anche altre piccole forze politiche della destra extraparlamentare.
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Secondo i sondaggi, lo sfidante più pericoloso per il presidente in carica dovrebbe essere il cinquantaquattrenne Muharrem İnce, esponente del CHP (Partito Popolare Repubblicano – Cumhuriyet Halk Partisi), partito di ispirazione socialdemocratica, e parlamentare di questa stessa forza politica dal 2002, che potrebbe anche costringere Erdoğan a passare per il secondo turno, previsto nel caso in cui nessuno dei candidati raggiunga la maggioranza assoluta delle preferenze, secondo il cosiddetto “modello francese”.
Altri sondaggi, seppur minoritari, danno un possibile ballottaggio tra Erdoğan e la sessantunenne Meral Akşener, la cui speranza recondita sarebbe quella di diventare la prima donna a ricoprire la carica più importante in Turchia. Ex Ministro degli Interni tra il 1996 ed il 1997, Akşener rappresenta il partito İYİ (letteralmente il “buon partito”), forza del centro-destra filoeuropeista.
Il veterano per militanza politica tra i candidati alla presidenza è sicuramente Temel Karamollaoğlu, settantasette anni, in parlamento dal 1996 ed ex sindaco della città di Sivas. Il candidato del Partito della Felicità (Saadet Partisi), promotore di posizioni euroscettiche e vicine all’islamismo sunnita, non gode di grandi consensi secondo i sondaggi, ma potrebbe avere un ruolo importante in caso di ballottaggio. İnce, Akşener e lo stesso Karamollaoğlu, infatti, hanno stretto l’Alleanza della Nazione (Millet İttifakı), con la quale concorreranno insieme alle elezioni per il parlamento, e dunque in caso di secondo turno le preferenze di tutti questi candidati confluiranno quasi certamente verso l’avversario del presidente in carica Recep Tayyip Erdoğan.
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Dovrebbe ottenere almeno la doppia cifra, invece, il già precedentemente citato Selahattin Demirtaş, quarantacinquenne dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli – Halkların Demokratik Partisi), partito di centro-sinistra che rappresenta gli interessi della minoranza curda. Indine, il settantaseienne Doğu Perinçek sarà il candidato del partito di estrema sinistra VATAN (Partito Patriottico – Vatan Partisi), forza che mescola la teoria marxista con quella kemalista.
LE ELEZIONI LEGISLATIVE
Come anticipato, i cittadini saranno chiamati anche al rinnovo dei seicento membri della Grande Assemblea Nazionale Turca (Türkiye Büyük Millet Meclisi). Alle ultime elezioni, la coalizione favorevole ad Erdoğan raccolse 351 seggi, garantendosi dunque una solida maggioranza governativa, risultato che dovrebbe ripetersi ancora una volta.
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Secondo i sondaggi, la coalizione Alleanza Popolare (Cumhur İttifakı) dovrebbe raggiungere circa il 50% delle preferenze, anche se proprio negli ultimi giorni alcune agenzie hanno dato in calo i suffragi diretti ai partiti di governo, scesi al 45%. Numeri che comunque dovrebbero permettere la formazione di una nuova maggioranza favorevole ad Erdoğan, visto che la principale coalizione di opposizione, l’Alleanza della Nazione (Millet İttifakı), dovrebbe arrivare, nella migliore delle ipotesi, attorno al 40%. HDP, il partito di Demirtaş, si attesterebbe invece sul 10%.
Per gli appassionati dei dettagli tecnici sui sistemi elettorali, l’organo legislativo sarà eletto attraverso un metodo proporzionale basato sugli ottantacinque distretti elettorali che compongono il Paese, ed i seggi verranno distribuiti secondo il metodo D’Hondt, ma con uno sbarramento fissato al 10% per poter ottenere almeno un seggio. Per la precisione, settantasette province corrisponderanno ad altrettanti collegi elettorali, mentre le province di Bursa e di İzmir saranno divise in due distretti, e quelle di Ankara e di İstanbul in tre.