PREMESSA
Qualche mese fa, un amico professore universitario mi ha passato in modo confidenziale un libretto d’un poeta italiano, del quale in realtà già avevo letto varie cose, sempre grazie al mio amico, come autore di teatro e romanziere. Il titolo era accattivante: “Nelle segrete di Camelot” e il contenuto mi sorprese molto; era una meditazione sul tempo della pandemia dalla quale emergeva una positività disarmante; dalla prigione del lockdown pandemico nascevano incantesimi meravigliosi come a Camelot, un mondo dove magia e cruda realtà convivevano con assoluta naturalezza. Qualcosa mi ha spinto a cercarlo.
L’ho finalmente incontrato pochi giorni fa’ durante un mio viaggio di lavoro in Italia per la traduzione di un mio libro , e devo dire che quel presentimento era fondatissimo. Ho avuto infatti la fortuna di poter conoscere (ovviamente online per i problemi della pandemia) una persona della quale condivido molto a livello di ideali e d’esperienze. Ero partito per fare tante domande e invece sono stato io sommerso di domande curiose: gli interessavo, ma credo che ogni uomo sulla terra gli interessi perché, prima ancora che io mi presentassi, la sua disponibilità era palpabile come la sua giocosa curiosità. Mi disse subito che gli assomigliavo molto, che solo l’età ci distanziava, ma che si ritrovava nel mio porre le domande, nella mia curiosità, perfino nel mio “sguardo sulle cose”. Ebbi l’impressione di trovarmi davanti ad una persona felice, con delle certezze artistiche ed umane che non posso che invidiare, con uno stupore da bambino di fronte a quella che chiama “La meraviglia della vita”, verso la quale pure confessa di sentirsi allo stesso tempo innamorato e distaccato come se “la sua casa non fosse definitiva”; un uomo di passaggio, ovunque, tra chiunque. Mi ha fatto confessare che anch’io scrivo e poi, nel corso della conversazione, ho cominciato a scoprire lentamente il Marcello Lippi uomo, perché il poeta, invece, è rimasto stranamente e gelosamente nascosto. Ignoro il perché di tanta ritrosia a raccontarsi, come se non fosse importante, come se fossero altre le cose centrali nella sua esistenza. Ho scoperto quasi per caso la sua trentacinquennale carriera di cantante lirico, le sue regie importanti, la sua direzione di teatri d’opera e festival, ma mi sono dovuto documentare online per ricostruire il non detto, il “non importante” per lui. Nemmeno le sue poesie (11 raccolte) erano importanti nell’intervista: contavo io, voleva sapere di me, perché, pur a distanza, vedeva nei miei occhi una malinconia sottile che lui mi disse di conoscere anche troppo bene. Non mi diede consigli, né soluzioni, ma guardando quegli occhi lontani, capivo più cose di quante ne avrebbe potute dire. In quei momenti ho capito la sua poesia e rileggendola, dopo il nostro incontro, ho scoperto mondi che, prima, concentrato sullo stile e sui versi, avevo ignorato. Ho incontrato una persona diversa ed un poeta vero, perché quello che scrive non è accademico, bensì mosso da una grande umanità alla ricerca di completezza. Non so da cosa derivi questa sua profonda diversità dalle persone di spettacolo finora incontrate ed intervistate e quale sia il segreto della sua profonda serenità, ma lo scoprirò presto.
Christopher J.W. Robson
(traduzione Marina Cantone)
MARCELLO LIPPI POESIE
1. TANNHÄUSER
da “In Illo Tempore- Nove Canti” 1998
Nel crepuscolo tardivo dell’ultima estate
t’accolgo e comprendo d’umana, lieve, dolcezza,
tu che parli al mio senso malato d’angeliche
porte socchiuse, di templi lontani e di fate.
Il pensiero ti sfiora e ti ripercorre in gioco,
mai pago di seguirti o stanco di precederti.
Amo il tuo sguardo che annulla le distanze e il tempo,
amo la tua tristezza, il tuo entusiasmo, il fuoco.
Fa freddo per le strade della grande Berlino,
un freddo che consuma, annienta, inebetisce,
ed io cammino, solo con il mio infame passato,
sotto i tigli anneriti, come un vecchio bambino.
Fantasmi senza pace, perché ancor m’illudete
d’amore tra suoni d’arpe celtiche e di liuti?
Venga la nebbia madre ad offuscare il rimorso,
venga l’oblio perenne; mai riattraversi il Lete!
Tutto è finito per chi ha molto amato e perduto,
tutto è storia. Né vale l’illusione, gioventù,
a trascinarti ancora in un patetico bordello,
ora che, troppo tardi, ti ho riconosciuto.
Quanta strada per cercarti, dolce sposa mia,
servendo i crociati nel loro santo delirio!
Quanti anni di pellegrinaggio a piedi scalzi,
seguendo un istinto, un profumo, una poesia!
E’ fiorito invano il tronco dell’espiazione:
giunsi a quelle porte così stremato e lacero
che non mi fu permesso entrare alla tua mensa.
Fu l’ultimo scherno, la più crudele irrisione:
vederti fulgida, nel mio ultimo mattino,
salire il trono dei soffocati vaticinî
in un tripudio d’ori, suoni e risa infantili,
ed esserne precluso, come un feroce assassino!
Ma se uccisi, fu per passione, per sfida audace:
crocifissi i miei pensieri davanti al tuo altare,
perché te ne vestissi come di una collana,
sgorgata dal ciglio come nettare di pace.
Ed ora giaccio, senza la forza di tornare
al primitivo inganno, davanti alla tua soglia.
Qualcuno ha gettato nel cappello una moneta,
senza uno sguardo, scuotendo il capo nell’andare.
Scende una neve vivida di stelle a coprire
il corpo rigido del vecchio mendicante scalzo:
osò partire un giorno dalla sua casa avita
seguendo un sogno nel suo fuggevole apparire.
Tremo, ma non di freddo, giacché tutto è ormai spento,
tutto è indifferente; sento nascere in me luce,
folle speranza e oblio. Se questa è la morte, sia
come un altro viaggio, un cercarti ancora
nel vento.
2. IDEALE
da “In Illo Tempore” 1998
Non al di fuori del placido scorrere
d’irripetibili istanti di gioia;
non tra i fulmini d’eventi luttuosi,
lampi fugaci in un lago di noia;
io ti cerco là dove in fulgidi raggi
gli occhi innocenti accecano il sole,
dove il tuo canto nel vespero suole
vivido immergersi e poi trascorrere.
Io ti respiro, selvaggia e impudente,
quando al tramonto t’avvolge il silenzio.
Guardo il tuo seno, fremente al mio tatto,
farsi impudico; cospargo d’assenzio
le turgide cime; bevo distratto
dell’innocenza svanita e lontana;
come fiera m’occulto nella tana,
libero e folle d’istinto veemente.
Scorron le dita la morbida strada,
accoppiano labbra, poi terre e fiumi.
Piccolo cosmo, vorace afflizione!
Non la tua acqua che evapora in fumi,
sgorga, vergine, da nuova creazione;
non il tuo corpo, materia sublime,
s’apre ad incerti connubi. T’incieli
e affondi in abissi d’angoscia. Ti sveli
e, lenta, la barca ora scivola in rada.
1996
3. PRIMA STAZIONE
da “Edàkruse” 2010
Metamorfosi,
o ripetizione inesorabile
d’uno stesso sacrificio,
fino a che la diversità
si faccia peculiare,
con l’orgoglio d’un crociato
smarritosi alla prima avventura.
Cosa vale, di questo turbinio
veloce con cui sporco i fogli?
Cosa assurge ad essenziale?
Forse un giorno ti troverò
accanto nella mia cella umida
e fredda; ti troverò su di me,
nella mia stessa branda,
divenuta baldacchino e alcova,
e quella rabbia feroce, al cospetto dell’amore,
diventerà uragano: la sua voce,
ora quasi spenta, canterà.
E lo farà finché nessuna bocca chieda
più il pane ai torvi ladri
stesi sulle tolde assolate
nelle pigre ore dell’oblio
a Portofino, a Capri o chissà dove:
il luogo non definisce ciò che un atto
mancato, uno sguardo distolto,
aggiunge alle pene dei crocifissi!
Passa il dolore, inchinatevi!
Genève, 1/9/99
4. SENSIM SINE SENSU
da “Come un lungo viaggio” 1998
Quale suono o colore ti racconta
nel dolce moto del mare? T’ascolto
e ti contemplo, pervadente i secoli,
eternamente bella! Sei tu il segno
che deve venire? Sei tu la stella
d’epifanici eventi, tripudiata
da infantili sorgenti in ogni dove,
con moto di zoccoli in lontananza,
spersi, come sperde la mia memoria
i tuoi contorni e s’avvilisce? Fèrmati!
Odo la voce della tua natura
riecheggiarsi sugli impervi sentieri,
forzando l’acque pluvie ai ritrascorsi
passi, mentre , sopraffatte, levano
l’orecchie le giumente e gli agnellini
sgravano le madri, così incoscienti
al tuo richiamo che avvolge l’erba ai piedi
e la disgela. Tremano i rami spogli
al tuo sospiro lento e rassicurante,
indifferenti al folle trascorrere
dei frettolosi conducenti, a gara,
verso le fredde case e i tristi sogni,
che da schermi uniformano i pensieri.
Pochi levano il capo a questo suono,
ed una lacrima ne solca le gote
riarse dal troppo sole, aduse
al silenzio delle lunghe e nobili
veglie, negli ovili o nelle fabbriche,
nei tuguri o nei palazzi, segnàti
dal tuo abbraccio sulle fronti e sulle mani
da stigmate infuocate, perché veda
chi nei tuoi occhi si rispecchia e frange
e s’effonda per le strade l’armonico
transumare della fertile Madre.
Fèrmati ! Ora che di te sono colmo,
di te che m’hai pervaso a mia insaputa,
amando quando non c’era un oggetto
che alla tua tenerezza rispondesse,
come l’acqua del mare ama lo scoglio
e lo sommerge col suo possente amplesso,
ora che m’hai ridesto e trasformato
in docile argilla per sapienti mani,
ferma il tuo passo alla mia porta e dormi:
domani all’alba partiremo insieme
e sarà lunga la strada verso il sole.
Barcelona 1998
5. Per i tuoi occhi
da “Edàkruse- Il povero tesoro del mercante” 2010
Per i tuoi occhi, stasera per un attimo fissi sui miei,
per quella certezza che mi dà il non sapere chi sei,
canto note confuse, balbettanti, innamorate
più del mistero che di te, più del velo che del racconto.
Se ti parlo è perché il cuore scoppia
quando il silenzio t’avvolge come una cascata
e il tacere è vile omissione nell’incompiuta sinfonia.
Lasciarsi andare non è facile, come seguire mani robuste
che t’accompagnano dove non vorresti andare:
e io ti scordo, mentre ti penso e ti rimpiango,
e riempio di getto il foglio senza riascoltarmi.
A te che sei la tredicesima nota, la più inattesa,
volgo d’un tratto il mio pensiero come sorpreso da un lampo
che non si dà né si conosce, ma pur esiste, forte di una bellezza
che al vento insegna danze nuove e nuove aurore.
Rovigo, 18-11-2009
6. Chino su di te
da “Edàkruse- Il povero tesoro del mercante” 2010
Come ogni sera,
bacio le tue mani
che sanno di mare
e di mille carezze.
Immergo la fronte
nel loro cavo profondo,
le giungo, le stringo,
ne assaporo il calore.
E penso a quel lampo
che squarcia il mio cielo,
che ingiorna la notte
e ne ridesta i fantasmi.
Quanto è diversa la voce
che mi raggiunge e soccorre,
da lontano, da vicino,
dal mio stesso cercarti!
Le ore trascorrono
veloci o lente, purché trascorrano,
ed imbianco l’ insperata gioventù
con ritocchi sapienti, con sapori nuovi;
attendo, certo, ma non con ansia,
lo svelarsi del tuo viso, del tuo tempo.
Chino tra le tue mani
nascondo lacrime di rugiada.
Genève 23/9/99
7. GIOCO D’ACQUA
da “L’ultimo viaggio di un pastore errante” 1996
Come una cascata precipito su te:
t’inondo e sommergo, ti possiedo e bevo;
cerco il segno del mio sacro appartenerti
nella fragile coscienza che tu sei in me.
Tu sei quest’acqua e la roccia che è bagnata,
sei il volo libero e la mia caduta.
Lasciati guardare, mentre, accarezzata
dalla brezza marina, mi rubi il sole
e t’inebri di gloriosa materialità.
Solo un velo cinge il tuo fianco perfetto,
la morbida rotondità della vita,
ed il vento gioca a scoprirti laddove cade
l’altrui sguardo, gioiosamente impudico.
Soave finzione quel tuo non cogliere
gli sguardi amanti! Irrori l’arsa terra
col caldo umore e la consacri fertile
di nuova materna unione. Breve sogno,
incontro, possibilità! Ricerco ancora,
nei foschi meandri del ricordo, i passi
che mi condussero ai tuoi piedi giovani
d’estate e mi perdo in rivoli infiniti,
tutti protesi, come mani di bimbo,
verso il nativo abbraccio del grande mare.
1996
8. Graciela
da “In Illo Tempore” 1998
Fin qui ho camminato per le tue mani
di petali ed acqua di fonte, per la tua chioma
di foresta inesplorata, fresca di rugiada
nel mattino del mondo, e qui giaccio
arso e morente, davanti a quel che è per essere
ed alla sua verginità. Fatto per l’inquietudine,
se pur m’appago è per un attimo racchiuso
in una stilla tremula che la fragile foglia piange
per nostalgia. E tutto è creazione, tutto idea.
Fuoco a fuoco che avidamente s’implora nella sera,
ed è vuoto di misericordia il chiudere le palme tese;
tutto si racconta e rimanda la mia furia più in là,
dove il lampo dei tuoi occhi mi conduce.
Mi nutro di te e del tuo volo, della tua bocca
schiusa ai baci, che guardo, e non mi stanco,
mentre si fa fonte di giovanile purità, nel tempo
che, grato d’essere, s’incendia ed esala lieto
al suo potente estuario nell’infinito perdono.
Tutto converge a te e tutto da te diparte
verso nuove scoperte, nuove morti, nuovi soli,
uniti in quell’abbraccio che non ha pace, ma si tende
come è tesa la guglia della cattedrale nella placida notte.
Senza posa, perché preme il passato, come nuvole
che credono arrivare in uno spazio certo,
vaghiamo felici in orizzonti tersi, ma è al di là
la soglia e tutto ci invita al viaggio con armonie d’oriente.
Volgi i tuoi occhi di brace e danza per me,
finché il presente vive, consumandoci l’un l’altra,
ritrasformando l’ore in ciò che è già stato e più non pare
ai dimentichi viandanti, ebbri di futuro. Il domani
non verrà a disturbarci, sconosciuto, mentre al fiume
impetuoso laverai le belle membra nude, calde
di un’estate atavica e tardiva, d’una passione antica
che l’eco rimanda, incredula, al tramonto.
Genève 27-3-98
9. Charlotte, nel suo libero incedere
da “In Illo Tempore” 1998
Chi ha ragione e chi torto,
se una comune positura
induce a differente opzione
menti raccolte nello stesso sforzo,
tese all’essere con potente slancio,
eppure antitetiche, nemiche, aliene
fin nel porsi in fronte all’energia che cade
e non risale, perché essa sola è data
e non esige mercede, né conoscenza?
Dove la libertà s’incarna e si fa storia
non v’è spazio per censure e parzialità,
non tra queste mura ove il tuo canto suona
meno dolente, perché amato,
tra l’indifferenza animale dell’artista
e del poeta, che appena levano uno sguardo
penoso e stanco sul tuo rapido passare.
In quell’azzurro, e non altrove,
perché si negherebbe ciò che il senso
evidenzia e la ragione coltiva,
vedo la scia possente del volo
d’un Icaro immateriale e sacro.
E’ il tempo in cui s’affretta
l’avvento, perché l’amore lo esige,
e s’evade la necessità d’un sito
cui rimandare curiose vanità,
perché vi si perdano e scompaiano.
Se nel mio sguardo potessi cogliere
non la desolata debolezza del tuo Werther,
ebbro dell’illusione d’un eroismo
capace di mutar nel bene il male,
ma il coraggio di chi chiama le cose
con un nome che le definisca
contro ogni dubbio, ameresti
in me non la fierezza della razza
che impavida continua oltre la morte
il suo cammino, ma la mia povertà,
la mia mano tesa in una carezza,
forse l’ultima, a ciò che siamo stati,
in un tempo irrevocabile e miracoloso.
Genève 7-5-98
10. FATA BOSCHIVA
da “Come un lungo viaggio” 1998
Hai sentito talvolta il mio pensiero
salire ad uno ad uno quei gradini,
come salendo ad un tempio
nascosto in vergine vegetazione,
come salendo al sole, incurante
del vento caldo che sferzava
i passi incerti, ciò che di me era più mio?
Là ti sfiorò il mio sguardo
sognante, tra le velate immensità
lontane, occhi giovani e profondi,
succo d’uva acerba, ai tuoi piedi
insanguinati e stanchi, sacrificàle.
Assaporai fremente la tua tenerezza
come d’alcova negata al tramonto
del senso malato, la sentii avvolgersi
come germinata dalla terra. Tu, così viva!
Sfiorai il tuo seno, la bocca
inusitata al verbo, le ciglia folte
chiuse al mio divenire, nell’ora
dolce della vendemmia e del sepolcro.
Luna dolente, del tuo pallore
pascendomi crebbi e mi persi,
navigando senza speranza cieli
sconosciuti e vacui, immondo
alle tue dita sfuggenti,
al tuo ansimare sicuro e futile.
Avvertii il calore del tuo corpo,
nato per l’amore, come muschio
nascondermi a me stesso,
involgere la mia stasi indefinita
e perpetuarla. Uscii furtivamente,
per non destarti, nell’aria fresca
della campagna intorpidita e rorida.
Sentii allora, per la prima volta
forse, il richiamo del tempo
farsi brezza tra i miei capelli,
risucchiando le foglie in piccoli
angoli di domestico raccoglimento,
quasi a sgombrarti, labile pensiero,
la stretta via tra le case addormentate
e quel tepore sconosciuto, quella tenerezza
nello sguardo che possedeva, amando,
le variopinte corolle prospicienti
i cancelli, chine al passaggio,
devote, spargenti lacrime gelide
di notturni amplessi ed effluvi
allusivi al materno sentore.
Il cielo aveva i tuoi occhi,
solcati da ombratili labilità,
ed il vento era il tuo respiro
caldo ed immenso e profumava
d’alghe e di boschive recondità.
Tu sei nata dal mio senso,
dal malinconico e solenne svestirsi
d’ogni partecipazione e razionalità;
sei la mia nostalgia, il mio colore,
la vampa che anima il mio passo
e la tana che m’accoglie,
come una foglia il vento,
come la strada il sole.
Lewes 1997
11. Cagliari
da “Edàkruse- Il povero tesoro del mercante” 2010
Ha il vostro volto misericorde
e giovane quella parte di me
ineludibile, profondamente
muta di un silenzio non vuoto,
ma pregno d’incantesimi
gioiosi, di sole, d’aria
compassionevole e grata,
di mura calde tra cui s’incrociano
rivoli fecondi della stessa eternità.
Almeno tu, arresta la mano stanca
tesa al viso del viandante!
Vicoli…vicoli stretti e desolati,
incontri inutili, frammenti…
tutto dimenticai del veliero
indomito che qui mi ha tratto,
salvo il tuo volto rugoso,
gli occhi fissi nei miei,
il tuo vino versato sulla lercia
tovaglia della Taverna dei due Mori
e il tempo che s’incarnava,
t’incalzava alle tempie e ti urgeva
all’azione o all’inazione, comunque
alla vita che non teme…
Il mio sguardo vi sfiora e forse trapassa,
duro come la selce, forte come una scure:
si possiede l’ora, per poterne aver conforto?
Dita nervose cercano tasti introvabili
per raccontarti nella tua folgorante giovinezza ribelle
e già non sei quel che fu detto
solo un istante prima dalle mie labbra aride,
né dai padri languenti attorno ai fuochi
improvvisati d’una sterile campagna
abbandonata…..abbandonata…. ma da chi?
Può l’enigma sfuggire le sue stesse ali?
Obliando il sentiero, può un pastore
cieco transumar greggi d’ombra senza attendere
che un canto d’uccelli, che un profumo,
che una voce amica giunga con l’aurora
a ricondurlo al focolare?
Ti attendo e già sei nella mia stessa attesa,
nei miei sensi vigili che ti precedono
e chiamano. Sei. Che io ti canti o no, tu sei.
Ritornerò presto nel mio vagabondare
a queste rive cariche di storia e d’accoglienza
e sarò più giovane: ve lo prometto,
amici miei d’un giorno, compagni d’una vita.
Ogni parola detta nasce per l’iterazione,
e muta di labbro in labbro il suo destino,
ma non il suono che la riempie, che la porge e la fa canto.
Voi siete il mio canto, la mia benedizione.
Verrò alla festa con i miei cento figli,
a spezzare il pane all’Agape fraterna,
qui ai piedi del sacro monte, dove,
al fioco lume di un’errabonda stella,
raccontano le nostre voci, unite in coro,
una storia antica
quanto la vita stessa.
Cagliari 4-3-2000
12. Camminando sulle stelle
da “Eutiner Symphonie” 2010
Non c’è distanza che contenga il mio pensiero.
Volando, precipitando, camminando sulle stelle
ti cerco, raggiungo, respiro e possiedo,
con le mani intente a plasmare avventure nuove,
sfidando il tempo e le ferite chiuse.
E’ azzurro il cuore mentre ti stringo, candida, al petto,
mentre le labbra cercano l’umore materno
e l’illusione, non paga, s’incarna a creaturalità diverse,
se non origini, marchiate da un sigillo antico
d’un amante re.
Tutte le acque, le terre e i villaggi, le corde, le strade,
gli slanci trattengono invano l’areteico senso
di ciò che è di per se stesso immenso, e non s’ascolta,
tra queste gore, al fresco impensabile della foresta,
che il tuo nome riecheggiare nelle menti.
Labbra innocenti innate al fuoco del tempo,
vi cerco e riassaporo, forte d’una memoria ch’è segno,
finalmente, e non ricordo; vi perdo e ricongiungo
al di là del giorno, là dove s’ immerge, lieve, il tuo corpo,
nell’acqua sicura del mio grande amore.
Eutin, 29-6-10
13. PLYMOUTH
da “Come un lungo viaggio” 1998
Qui, nella roccia, ove s’apre,
memore di tepide faci
e di violente ustioni, rappreso
dal tempo e marchiato di nera
fuliggine, il fulcro atavico del focolare
e, timida, una nicchia ne riprende
concavità inesplorate ed accoglienti,
aduse alla nudità come al perdono,
l’istante par fermarsi compiaciuto
ad usitare ricordi teneri
da recondità polverose; grato,
ritrascorre alla vergine novità
come chiamato, forse da te stessa,
a risignificarsi. Vivente! S’accostano
i filari di porcellana in ordinata
schiera immota, mentre affondo
il tuo nome di mia mano nella brace
crepitante e disillusa. Al centro
di questo afflato che il cosmo
abbraccia nel desiderio, nell’impronta
del tuo piede assente tutto è voce,
tutto è silenzio, che l’ombra avvolge
ed ama nel sonno gracile dei monaci
e dei fuggenti, tesa al nuovo giorno
come alla morte il mio cammino,
tesa al tuo sorriso come la lacrima
al ciglio. Dovunque tu sia, sola
o fra più calde braccia, dovunque scorra
il flusso dell’impareggiabile tenerezza
misericordiosa, so d’essere nato
per quell’istante sconosciuto in cui t’incontrerò
come non t’avessi mai amata,
immerso in te, nel tuo ventre di torrida
estate, di grano maturo e miele;
immerso, ma non perso, laddove
il mio nome riprenda il suono
timidamente sorgivo sulle tue labbra
e l’assedio impetuoso delle nubi
si squarci come il velo che ti copriva.
Esule! Per quanto ancora legato
ad epocali o connaturati vizi,
incompiuto e stanco, quasi sognante,
desiderando invano un risveglio al tuo fianco?
Scorrono i volti, le ansie, i pensieri,
come singole note di sinfonie sconosciute,
ognuna potente e necessaria, ognuna
piccola ed insignificante, nel vasto perdersi
al nativo orizzonte evanescente.
In arditi accordi, in clasters furiosi
mi risollevo a tratti come lupo
alla tormenta e levo il canto
inudibile delle selve martoriate
e delle vittime innocenti, mentre guardo
commosso l’ignaro pascolare transumante
dei simboli pietosi, sotto un cielo
scuro, cui s’implora senza requie.
Plymouth 1997
14. Il nero che colsi nel tempo che sai
da “Nelle segrete di Camelot” 2020
Il nero che colsi nel tempo che sai,
A manate, a bracciate, riempiendo il grembiale,
Spighe di perduta confusa sconfitta, dove non giungi, eppure sei.
Non lasciai il minuscolo sentiero tra gli olivi, quelle rocce aguzze
Che tormentavano i piedi e la mia voglia.
Correvano gli occhi e ciò bastava al vento,
Per condur lontano le mie flebili parole.
Occhi nella notte, pur intuitivamente avvertiti
D’una Presenza insopprimibile. Colori nel buio:
Segni del tramonto o presagi d’ infinito?
Nero, quello del tradimento e del disinganno, del fallimento irredimibile,
Fra le fessure trapela il corpo di lady Godiva,
E il riso del bambino che ne squarcia la bellezza.
Non si ode più tra gli stagni e le fangaie l’eco lontana del galoppo,
Tutto è sospeso
per un misericorde battesimo del nuovo giorno.
Lucca, 15/04/2020
15. Come dal tuo sorriso
da “Nelle segrete di Camelot” 2020
Come dal tuo sorriso trae luce il colore dei miei occhi,
Mentre ti lasci dolcemente cullare dal tenero vento d’oriente!
Come allo scorrere rapido dell’amore tra le nostre dita,
Profumo di pane, di fragole appena colte, s’ingioiella
L’armonia d’un duetto senza testo!
Ora felice, che i tuoi piedi scandiscono scorrendo rapidi
E silenti, muovendosi nello spazio come padroni del mio tempo.
Ora amica, amante, ardente e grata! Tu che mi ridesti,
Io che ti ricreo, in un unico amplesso senza confini.
Terra generosa di primavera, orgoglio della natura,
Nella tua chioma bruna ritrovo accordi d’armonie lontane.
Pacificato, corro accanto al generante fulcro, per un’azione,
Una sola, che possa durare per l’eternità.
Lucca, 26 aprile 2020
Al cielo terso dopo il temporale
da “ In questa illogica meravigliosa sospensione” 2020
Al cielo terso dopo il temporale,
Levo le mani callose del falegname,
Attento a cogliere ogni lieve stormire delle fronde
Nel nuovo capitolo di questa giornata.
Mi pervade una libertà fisica e spirituale,
Un anelito, un desiderio incolmabile e irrinunciabile
Di significato, d’ impronte lasciate sulla terra ancora bagnata
Mentre torno a guardare le mie robuste radici.
Tu, dalla finestra, mi guardi e sorridi; posso sentirlo quel sorriso
Anche senza voltar l’attenzione; troppo evidente la tua presenza
Nel tempo d’intervallo tra le visitazioni ch’altri chiamano dolori.
Giorno, profumano le rose che piantammo in giardino,
Fiorite in un tempo misericorde e terribilmente vero.
Mi vieni incontro e in quell’abbraccio c’è tutto il colore
Del nostro tempo in comune. Ho vissuto tante vite,
Ma tu c’eri sempre.
Lucca 20/05/2020
17 A volte bruci
da “ In questa illogica meravigliosa sospensione” 2020
A volte bruci quando vieni più vicino, sei fuoco,
Non un tiepido, confortante, asilo di calma e protezione.
La sapienza è il tesoro che si nasconde nella lava
E chi più sa, più comprende e soffre.
Sul filo, senza rete, l’acrobata muove gli incerti passi
Equilibrandosi con un sottile bastone: appartiene alla terra,
Ma non guarda la terra. Altro è ciò che preme.
Saperti così vicino e non poterti vedere, ora che tutto tace!
Tanto forte è la privazione da indurre il tempo della visitazione
Al colore dell’ansietà vorace, fino a toccarti un lembo della veste,
fino a guardarti in viso.
Il lago è alle spalle, poveri amici dalla pelle indurita dal sole:
Gli uccelli sopra voi ridono della vostra maieutica.
Quanta sapienza è andata perduta? Cosa cerchiamo?
Chi cerchiamo, con tanta confusa partecipazione?
Sotto un platano riposa il significante, l’onfalo della domanda mai posta
Che ora risuona da parte a parte come un canone a più voci.
Terra, Mare, Vita, Morte, a tutto c’è un tempo, a tutto un fine.
Conta il fuoco che, da dentro, ha cambiato l’istante, e l’ha reso eterno.
Lucca, 3 giugno 2020
18 L’isola dei beati
da “In questa illogica meravigliosa sospensione” 2020
Chi può capire il vuoto che suscita la tua Presenza,
Il desiderio, il fuoco, finché non possa in te trovar riposo?
Chi può, se non chi è stato sulle rive del lago,
Laddove il guerriero, posto dal mago sulla navicella,
Venne inviato all’Isola dei Beati?
Chi c’era? Dove sono i volti di coloro che ha amato e scelto?
Dove sono i Cavalieri?
Averti qui è per me un tesoro più grande della stessa mia vita
E se una cosa oso chiederti è perché già me l’hai donata:
Il mio grido ha incontrato la sua eco ed il tuo sguardo
Fulminante e puro.
Chi ti ha incontrato, ha capito il tempo e la storia,
T’ha accompagnato e riso con te dell’albe rovesciate
E dei falsi tramonti. Nulla è che non fosse già prima.
Io conosco questi mondi incantevoli e le grotte di cristallo,
Conosco il destino anche quando si nasconde.
Non son fuggito, ora, per la prima volta,
Ma hai dovuto chiamare il mio nome, perché la natura fiorisse.
Lucca, 09/06/2020