Nel 2002 il Sussex European Institute ha pubblicato uno studio dal titolo The Party Politics of Euroscepticism in EU Member and Candidate States che offre un quadro realistico sull’andamento e sull’evoluzione dell’euroscetticismo. Innanzitutto, viene operata un’opportuna distinzione tra hard euroscepticism e soft euroscepticism.
Nel primo insieme vengono fatti rientrare i partiti che sostengono la necessità, per il proprio Paese, di ripensare la membership nell’Unione, e di stoppare il processo d’integrazione. Si tratta di movimenti single issue, ovvero che basano la propria mobilitazione politica unicamente su d’una tematica, in questo caso sulla necessità di avviare un procedimento d’uscita dalla “casa” europea. L’esempio più noto è senza dubbio l’UKIP – UK Independence Party – il partito britannico fondato nel 1993, salito alla ribalta tra il 2010 e il 2016 sotto la guida di Nigel Farage e sostanzialmente “evaporato” dopo la vittoria nel referendum sulla Brexit. In questo insieme vengono inseriti anche quei partiti che, pur non menzionando espressamente la richiesta di exit, pongono delle condizioni per la permanenza nell’Unione talmente irrealizzabili da sotto-intendere, come unica ratio, l’uscita. Al secondo gruppo appartengono i soggetti che non propugnano l’uscita dall’Unione né si oppongono ad un ulteriore sviluppo politico del progetto europeo, ma limitano le proprie critiche solo a determinate policy di Bruxelles che vengono considerate potenzialmente lesive dell’interesse nazionale.
L’analisi degli andamenti elettorali mostra un dato inequivocabile: l’euroscetticismo, nei primi anni Duemila, rappresentava un fattore marginale nei sistemi politici degli allora quindici Stati membri. Più precisamente, in Spagna non erano presente alcuna forma di euroscetticismo organizzata in un partito; in Portogallo, nei Paesi Bassi, in Lussemburgo, in Italia e in Austria non esistevano formazioni riconducibili all’hard euroscepticism, ma solo al soft. La maggior parte di questi registra percentuali atomistiche o pari a non più di qualche punto percentuale. Si tratta, in sostanza, di un euroscetticismo di testimonianza, che si amalgama ad altri elementi nei programmi dei partiti ma non ne rappresenta il fulcro. Non siamo in presenza di formazioni con aspirazioni maggioritarie, né che fanno parte di coalizioni di governo: le uniche due eccezioni in tal senso sono rappresentate dall’allora Lega Nord in Italia – ridotta a percentuali intorno al 4% e ben lontana dal consenso degli esordi – e dal Freiheitliche Partei Österreichsin – Partito Austriaco della Libertà – guidato da Jörg Haider in Austria, che invece aveva raggiunto il 26,9% e governava il Paese in coalizione con i Popolari dell’ÖVP. L’unica formazione a superare il consenso dell’FPÖ sono i Conservatori nel Regno Unito, dove però l’euroscetticismo è storicamente radicato nella cultura politica e rappresenta, pertanto, un’eccezione. Non cambia molto, invece, il quadro negli altri Paesi: si può rinvenire qualche traccia di hard euroscepticism in doppia cifra solo in Svezia, dove il Vänsterpartiet – Partito della Sinistra – tocca l’11%, in Danimarca con il JuniBevægelsen che registra poco più del 16% e in Francia, dove il Front National conta più del 15% dei consensi. Germania, Grecia, Finlandia, Irlanda, Belgio presentano soglie bassissime di euroscetticismo.
Il quadro cambia parzialmente prendendo in considerazione i Paesi del Centro e dell’Est Europa, allora candidati ad entrare nell’Unione – Bulgaria, Slovenia, Lituania, Romania, Lettonia, Estonia, Slovacchia, Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria. In questi Stati vi era un maggiore sostegno dell’opinione pubblica nei confronti dei partiti euroscettici – complessivamente, una percentuale del 25,9 rispetto al 15,3 dei già membri. Un dato, tuttavia, fisiologico se si tiene in considerazione la storia di questi Paesi che avevano perso la propria sovranità durante il regime sovietico e si dimostravano pertanto titubanti nell’aderire ad un nuovo progetto d’unificazione politica ed economica. In Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Slovacchia e Romania si possono notare percentuali anche oltre il 20% e una maggiore incidenza di tali partiti nei sistemi politici nazionali. Considerando, invece, tutti gli Stati presi in esame, si conferma quanto già precedentemente emerso: l’hard euroscepticism non ha, di fatto, accesso alle “stanze dei bottoni” in quasi nessun Paese del Vecchio Continente, e dove l’euroscetticismo “siede” al governo è comunque moderato.
Il dato, dunque, più significativo che emerge dallo studio del Sussex Institute è che di fatto, dagli anni Sessanta – ovvero dalla firma dei trattati di Roma – sino ad almeno i primi anni Duemila il processo d’integrazione europea ha potuto contare su di una costante assenza di opposizione organizzata a livello partitico nei Paesi membri e, contemporaneamente, su di un incondizionato sostegno mediatico nonché sulla tacita approvazione delle opinioni pubbliche continentali. Troppo spesso gli europeisti pretendono un atteggiamento più responsabile e umile dagli Italiani che accusano l’Unione di ogni male. Scordando, però, di chiedere alle istituzioni europee di recitare un medesimo mea culpa per non essere state in grado di sfruttare un’irripetibile serie di circostanze storiche favorevoli: presso Bruxelles, autocritica ed esami di coscienza non vanno di moda, ma si preferisce addossare la responsabilità dello stallo a “populisti” e “sovranisti”, ripetendo come pappagalli le solite parole d’ordine che ormai non fanno più presa sull’opinione pubblica.
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