Mancano circa quattro mesi alle elezioni europee. Nel 1979 la partecipazione media nei Paesi chiamati alle urne per questo appuntamento elettorale era stata pari al 61,99% degli aventi diritto al voto (85,5% in Italia) ma solo dieci anni dopo, nel 1989, era già diminuita al 58,4%, per poi scendere ulteriormente al 56,67% nel 1994 (81,5% e 74,8%, rispettivamente, in Italia) e al 49,51% nel 1999. Il trend negativo ha continuato la sua progressione sino a toccare il minimo storico del 42,61% nel 2014 (57,22% in Italia, che con un dato così basso si colloca addirittura nelle prime posizioni). Le cause di questo flop sono molteplici, ma possono essere classificate in due insiemi: nel primo troviamo i fattori strettamente connessi alla natura e al funzionamento del Parlamento europeo, nella seconda i fattori endogeni che emergono contestualizzandolo all’interno del sistema di governance.
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Innanzitutto, nel Parlamento europeo non sussiste una dinamica di maggioranza e opposizione che sostiene un esecutivo, e i contorni delle alleanze fra le famiglie partitiche europee sono spesso piuttosto fumosi – si pensi, ad esempio, a quando il Movimento 5 Stelle chiese di entrare nell’ALDE. Inoltre, si è presentato un problema di qualità nelle personalità scelte per sedere sugli scranni fuori dai confini nazionali: spesso i partiti usano l’assemblea di Strasburgo e Bruxelles come “parcheggio” per liberarsi di un candidato poco gradito nelle arene nazionali o, al contrario, per lanciare qualche giovane prodigio. In questo modo non si è sviluppata, in sostanza, né una vita partitica né una classe dirigente di respiro continentale che abbia davvero messo in contatto i cittadini con Bruxelles e creato un circuito virtuoso della rappresentanza. Il paradosso è che la creazione di un Parlamento eletto direttamente dai cittadini – la vecchia Assemblea parlamentare delle Comunità non lo era – era considerata fondamentale, in primis dai sostenitori dell’integrazione, per sanare il deficit democratico dell’allora Comunità. Dal 1979 altre riforme sono intervenute per accrescere i poteri del Parlamento europeo, ma paradossalmente ad un aumento di questi è corrisposto una diminuzione sempre più marcata della partecipazione elettorale. Ad esempio è stato rafforzato il vincolo di fiducia tra il Parlamento e la Commissione europea, è stata introdotta la procedura legislativa ordinaria, che consente a al Parlamento di approvare gli atti legislativi su un piano di parità assieme al Consiglio europeo, sono stati riconosciuti il diritto di petizione dei cittadini europei alle istituzioni europee e l’iniziativa dei cittadini europei. Tuttavia, come spesso accade, la creazione di formule roboanti e di nuove istituzioni non risolve le criticità esistenti e finisce col creare una sovrapposizione di poteri e di ruoli.
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Il flop delle elezioni europee è connesso anche ad un cronico problema di metodo: questo appuntamento elettorale era stato concepito nell’alveo del cosiddetto consenso permissivo. L’integrazione europea, sin dagli albori, è stato un processo guidato dalle élite: ciò si traduceva in una formula, cara a Monnet e ai funzionalisti, ovvero “fare l’Europa senza gli europei”. Si trattava, in altre parole, di agire un passo alla volta per poi mettere gli europei di fronte al fatto compiuto – senza coinvolgerli troppo e facendo affidamento sulla loro tacita approvazione – avendo premura che la questione europea non venisse mai politicizzata nelle arene tradizionali né divenisse argomento del dibattito pubblico. Le elezioni europee, pertanto, nascevano già anestetizzate in una stanca ritualità. Si è assistito così ad un’europeizzazione delle élite, ma non delle masse: i tentativi di costruire una diffusa identità europea artificiale – e un relativo governo centrale – forgiando una bandiera, un inno e una moneta non sono andati a buon fine. Al contrario, è andato in cortocircuito proprio il consenso permissivo: si è spezzato il legame di fiducia e di legittimità tra i popoli e le élite. Di conseguenza, è entrato in crisi anche il progetto europeo, che delle élite era il fiore all’occhiello, e ne sono emerse tutta la fragilità e vulnerabilità.
Così, mentre negli ambienti accademici e nei salotti europeisti si è cercato in tutti i modi di accomodare la definizione di democrazia all’assenza di legittimità e rappresentatività delle istituzioni europee, le elezioni continentali sono diventate elezioni marginali alle quali i cittadini hanno voltato di spalle, utili solo per i fini personalistici di leadership nazionali occasionali, completamente slegate da un vero dibattito in materia. Le prossime elezioni di fine maggio potrebbero segnare un’inversione di tendenza: ora che la frattura fra “sovranisti” ed europeisti è emersa con prepotenza, a giovarne potrebbe essere l’affluenza e, forse, anche la ricerca di un’Unione istituzionalmente diversa.
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