Il concetto di “persona giusta”, sdoganato per anni da quintali di letteratura cinematografica, televisiva e romanza, ha suggerito in maniera subdolamente melliflua un approccio idealistico ad un tema complesso e spesso persino buio come l’amore. Un approccio semplicistico e drammaticamente fatalista che ha di certo rovinato e continua a rovinare più di una generazione, insieme a molte altre dinamiche sociali incrociate che per ovvie ragioni non tratterò in questo editoriale.
Riflettiamoci: pensare che da qualche parte esista una “persona giusta” e che solo con quella potremo stare bene, è assolutamente puerile e miope. Soprattutto: è figlio di un concetto violentemente statico e passivo di relazione, che non prevede alcun ruolo per le persone coinvolte, ma solo un vero e proprio colpo di fortuna che le fa incontrare. Gli sguardi che dicono tutto senza parlare, i gesti sincronizzati, il completamento delle frasi, il guardare il cielo con aria sognante e dirsi le stesse cose all’unisono e tutto il repertorio smielato/fiabesco con il quale ci hanno bombardati per anni, senza fornirci alcuna arma di difesa se non l’eccesso opposto: il cinismo spietato.
L’amore, la relazione felice, diventa così una sorta di lotteria, dove appunto la buona sorte o una specie di previdente “fatalismo” sceglie al posto nostro e ci premia o ci condanna indipendentemente dalle nostre azioni.
La persona giusta è l’incastro perfetto, che non richiede adeguamenti. Un manichino forgiato per noi e per il soddisfacimento di ogni nostro bisogno. E lì che ti aspetta, così come sei, senza che sia necessario alcuno sforzo di accoglienza da parte tua. Nessun compromesso, nessun tipo di miglioramento del tuo carattere, dei tuoi atteggiamenti sbagliati, delle tue insofferenze inutili e delle tue abitudini deleterie. La felicità è un vero e proprio gioco al ribasso, dove tutto è in discesa e pieno d’armonia nedflandersiana.
GENERAZIONI DI PIGRI E VIGLIACCHI MAICRESCIUTI
Insomma: la “persona giusta” è lì, perfetta e tu devi esigere lei o niente. Se non arriva, se non la incontri, allora tanto vale stare da soli e non impegnarsi in nessun altro tipo di relazione. Da qui degeneriamo poi nella serie di frasi per maicresciuti che ascoltiamo sempre più spesso. Ne cito giusto alcune tra quelle che vanno più di moda:
“No perché io devo avere i miei spazi”
“Eh ma la mia felicità viene prima di tutto e di tutti”
“Sì ma non vale la pena impegnarsi in una relazione seria”
“Eh ma io mi devo godere la mia libertà”
“No guarda, in casa io devo stare solo/a”
“Non riesco proprio ad immaginarmi uno/una che vive con me”
Queste frasi oramai le senti in loop, come un mantra, ad attestare che siamo definitivamente passati da un eccesso (ti dovevi trovare qualcuno con cui sposarti o eri un sociopatico/fallito) ad un altro (sei un pazzo/sfigato se hai una relazione lunga). Dalla paura ossessiva di rimanere soli all’incapacità cronica di condividere l’esistenza con altri al di fuori di se stessi.
Ora, fermo restando che la libertà di scegliere come diavolo vivere la propria vita, se scopare in giro fino a 70 anni, fare figli o no, sposarti 1, 2, 4 volte o mai, è appunto sacrosanta e nessuno deve sindacarla, il mio cruccio sta nel fatto che questo andazzo generale sia più che altro frutto di una degenerazione iper-individualistica che è involutiva e non evolutiva.
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UNA PERVERSA MODA SOCIALE
Una forma di perversa “moda sociale”, figlia di paura e pigrizia e non di reale consapevolezza di certe scelte. Cioè: un tempo sul serio sceglievi di stare solo ed eri felice ed appagato di tale scelta. Te la godevi, senza rimpianti, fino alla fine dei tuoi giorni, perché avevi tutta la società che ti spingeva nella direzione opposta (soprattutto se eri donna e di bell’aspetto). Il tuo era un vero atto di ribellione, che non poteva essere frutto di pregiudizi verso qualcosa di mai tentato e neppure immaginato.
Avevi magari provato il matrimonio, la convivenza lunga ed avevi capito che, cazzo: sul serio per te era meglio stare per conto tuo, nel tuo piccolo paradiso orticellare. Ed era bello, liberatorio. A volte difficile, triste e spaventoso, ma roba veramente tua, che ti veniva da una consapevolezza profondamente radicata e portata da grande sofferenza ed indagine interiore. Una consapevolezza alla quale potevi aggrapparti ogni volta che ti sentivi sprofondare o avevi qualche inizio di rimpianto.
Oggi no: vedo queste scelte come frutto in primis di immaturità, paura, pigrizia, idealizzazioni ingenue ed egoismo patologico. Soprattutto: scollegamento pericoloso dalla realtà e grave miopia nel potenziale enorme delle relazioni non meramente occasionali e superficiali.
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IL BOOM DEI “DIVORZI FACILI”
Perché, in un mondo che ci vede tutti più precari, professionalmente inflazionati, economicamente deboli, dipendenti dai nostri genitori fino a 50 anni, la reazione dovrebbe essere l’esatto contrario: più unione, più cooperazione, più apertura all’altro e non più “vivo come un 18enne egocentrico e vuoto in eterno”. In questo senso, il boom di divorzi registrato immediatamente dopo l’introduzione del “divorzio breve”, dovrebbe fornire un altro dato sulla scarsa capacità di “tenuta” delle coppie, che alle prime difficoltà tendono a scoppiare. I dati infatti parlano chiaro: oltre 82.000 divorzi e 92.000 separazioni solo nel 2015, a testimonianza che forse non sappiamo scegliere bene il nostro partner, né costruire con lui un percorso duraturo. Se abbiamo una scappatoia, la usiamo subito.
Ma un divorzio o una separazione sono comunque segno di un tentativo, di qualcosa che abbiamo cercato di costruire senza però riuscire. E possiamo anche dire che l’istituto del matrimonio è arcaico e superato dalle nuove regole (e leggi) di convivenza “libera”. Non serve più sposarsi per sancire la volontà di voler stare insieme a lungo, magari per la vita.
Il punto resta quindi connesso a chi rifiuta a priori ogni forma di rapporto che sia più lungo di qualche mese, ogni forma di relazione più impegnativa (e quindi anche appagante) e profonda con l’altro.
Perché poi la vecchiaia arriverà, e con essa il monolocale squallido nel quale vivremo da soli, avendo pensato sempre e solo a noi stessi, senza aver mai neppure tentato di costruire qualcosa che andasse oltre il “me me e me”. Perché il rimpianto vero e doloroso viene dal mancato tentativo, mai dal fallimento. La solitudine vera viene dall’aver conosciuto sempre e solo noi stessi. Anche le storie belle che sono finite ed hanno portato tanto dolore, con il tempo diventano ricordi dolci che arricchiscono e nutrono l’animo. Ti ritrovi avvolto in quei vecchi pensieri avventurosi; scroscianti di risate, grondanti di condivisioni profonde e di amori sinceri. Sono il tuo patrimonio, la tua “pensione emotiva”.
Mi preoccupa e deprime molto questa resa aprioristica nei confronti delle convivenze e della vita di coppia. Capisco benissimo chi oggi ha 50 anni, due divorzi alle spalle e non ne vuole più sapere di “costruire”. Capisco chi ci ha tentato e fallito ed ora sta in (benedetta) pace con se stesso.
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Ma il resto? Chi ha 25/30 anni e si ritrae per scimmiottamento e timore, sopravvivendo, con l’illusione di essere chissà quanto libero, invece che incatenato dal proprio narcisismo egoriferito, dalla propria vigliaccheria ed incapacità di darsi, come si guarderà allo specchio tra 30 o 40 anni?
Sempre più turisti dei rapporti interpersonali, vogliamo solo il meglio. Esploriamo la superficie patinata e fuggiamo terrorizzati appena la passeggiata diventa scalata. Ed io, da perfetto “fuori epoca”, mi avvilisco ogni giorno di più.
Da sempre, insieme è meglio. Ma insieme ci devi saper stare. Devi imparare a fare spazio all’altro, ad accogliere per farti accogliere. Non è nulla di “automatico” e devi anche saper capire quando “insieme è peggio” e ti rovina la vita. Però ti devi allenare e pure parecchio; tranne casi di rarissima fortuna, non funziona con un incastro perfetto come ci fa credere chi parla di “persona giusta” e “sguardi che dicono tutto”. Queste sono puttanate per adolescenti poco svegli.
I rapporti sono prima di tutto fatica, fare pace una volta in più, trovarsi, perdersi e ritrovarsi. Capirsi e non parlarsi; spingersi e abbracciarsi, strattonarsi e accarezzarsi. Ed è una bella sfida, che fa sentire vivi e dà più senso all’esistenza. Fossimo nati per vivere soli, saremmo asessuati e ci riprodurremmo per gemmazione.
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