Recentemente è uscito il 2018 World Happiness Report (Rapporto Mondiale sulla Felicità) secondo il quale il Paese più “felice” del mondo è la Finlandia, seguita, sorpresa, sorpresa, da altre tre paesi nordici (Norvegia, Danimarca, Islanda), e poi da Svizzera, Olanda, Canada, Nuova Zelanda, Svezia ed Australia. Non troppo è cambiato dall’anno scorso, quando la Norvegia si qualificava prima e la Finlandia seconda.
Gli ultimi paesi per il tasso di felicità sono il Burundi e la Repubblica Centrafricana, noti per violenza, povertà ed instabilità politica. Interessante ricordare che l’Italia è al 47mo posto in questa classifica di 156 paesi, messa insieme dall’UN Sustainable Development Solutions Network, un’agenzia delle Nazioni Unite che ogni anno pubblica il suo rapporto sulla felicità. Il rapporto è stato steso da tre economisti: Jeffrey D. Sachs, direttore del network, e professore alla Columbia University; John F. Helliwell, membro del Canadian Institute for Advanced Research e professore emerito presso la University of British Columbia, e Richard Layard, un direttore del Well-Being Program (Programma del Benessere) al Center for Economic Performance della London School of Economics.
L’indagine è stata portata avanti attraverso dei sondaggi Gallup condotti dal 2015 al 2017, nel quale a migliaia di persone consultate veniva chiesto d’immaginare una scala con livelli numerati tra 1 e 10, ed alle quali veniva chiesto di dire su quale livello si sentivano di essere secondo una classifica nota come Cantril Scale, un metodo di misurazione del benessere creato nel 1965 da Hadley Cantril, pioniere nel campo della ricerca sociale.
Per capire secondo quali criteri si basano le conclusioni del rapporto basta tenere in considerazione che i paesi nordici giunti primi nella classifica si distinguono per reddito, aspettativa di una vita sana, supporto sociale, libertà, fiducia e generosità. Altri fattori sono, in generale, la percezione di benessere, corruzione – o più esattamente la mancanza di essa.
In particolare la Finlandia, con una popolazione di 5,5 milioni di persone, è stata classificata come il paese più stabile, più sicuro e meglio governato al mondo, oltre ad essere il meno corrotto e quello socialmente più progressista. Inoltre la sua polizia è quella che nel mondo ispira più fiducia ed il suo sistema bancario è il più affidabile.
Interessante notare che il PIL pro capite finnico è più basso rispetto ad altri paesi nordici e molto più basso rispetto a quello USA, ma a quanto pare i finlandesi sono molto più bravi a convertire la ricchezza in benessere. Questo a conferma che la qualità della vita è, nella realtà concreta e quotidiana, più importante dell’ammontare di denaro che uno possiede.
Nei paesi nordici in generale, secondo Meik Wiking del Happiness Research Institute (Istituto di Ricerca sulla Felicità) in Danimarca, la gente paga volentieri le tasse perché le vede come un investimento con un ritorno. Il fatto che ci siano una sanità ed un’educazione gratuite per tutti rafforza la fiducia nel sistema. Quello stesso sistema che Bernie Sanders cercava d’introdurre durante la sua campagna per le primarie negli USA, uno dei paesi più ricchi al mondo, come un salto progressivo, ma che invece in Scandinavia è visto, banalmente, come la normalità.
Tra le altre cose proprio gli USA si sono qualificati al 18mo posto nella classifica, scendendo di quattro posti rispetto all’anno scorso e di cinque dal 2016, ponendosi molto indietro rispetto alla media dei paesi ricchi, proprio a causa della mediocrità nel campo delle misure sociali. Questo grosso passo indietro è legato in particolare ad un abbassamento nell’aspettativa media di vita, ad un aumento nel numero di suicidi, al peggioramento della cosiddetta “crisi degli oppiacei” (in pratica il dilagare dell’uso di droghe), ad una crescita delle ineguaglianze, ed alla caduta nella fiducia verso il governo.
“Credo che questo sia veramente un profondo ed assai inquietante messaggio che ci arriva, secondo il quale la società americana è, per molti versi, sotto profondo stress, anche se l’economia, almeno secondo le tradizionali misure, sta andando bene,” ha dichiarato Jeffrey D. Sachs, uno degli autori del rapporto delle Nazioni Unite. Ha aggiunto l’osservazione che i primi 10 paesi nella classifica sono socialdemocrazie, le quali “credono che ciò che rende la gente felice siano dei solidi sistemi di supporto sociale, buoni servizi sociali, ed anche pagare una significante somma di tasse”.
C’è anche un’interessante e molto attuale novità nel rapporto di quest’anno: esso si è focalizzato molto sull’impatto che la migrazione ha sulla felicità. E si è scoperto che la felicità degli immigrati in un paese è quasi identica a quella della sua popolazione in generale. Questo, secondo Helliwell, altro autore del rapporto, starebbe ad indicare che “le persone essenzialmente si adattano al livello medio di felicità del paese nel quale si trasferiscono”.
Il rapporto fa notare anche come i paesi dell’America Latina si sono qualificati più in alto nella graduatoria rispetto al PIL pro capita, specialmente in contrasto con quei paesi dell’Asia orientale noti per la loro rapida crescita.
L’America Latina è nota sì per corruzione, violenza, tassi di criminalità, una sproporzionata distribuzione del reddito e povertà diffusa. Eppure è risultata relativamente felice nel rapporto delle Nazioni Unite. I suoi autori spiegano questo risultato con “l’abbondanza di calore famigliare ed altre relazioni sociali di supporto, frequentemente messe da parte in favore di un’enfasi sulle misure relative al reddito nell’ambito dello sviluppo”.
Intanto vale la pena un’altra scoperta del rapporto relativa all’immigrazione interna in Cina. In pratica, le centinaia di milioni di persone che si sono recentemente trasferite dalla campagna alle città non hanno fatto grandi progressi in termini di felicità. “Anche sette anni e mezzo dopo essersi spostati verso le aree urbane, i migranti provenienti dalle aree rurali sono in media meno felici di quanto avrebbero potuto essere se fossero rimasti dov’erano”, fa notare John Knight, dell’Oxford Chinese Economy Programme ed uno dei contributori al rapporto ONU.