I risultati delle elezioni italiane hanno offerto delle sorprese, ma fino a un certo punto. Se da un lato l’affermazione sia del M5S che di Salvini nell’ambito della coalizione di destra è stata notevole, tutto ciò, dopo tutto, fa parte di un fenomeno ormai comune e prevedibile: l’avanzare nelle democrazie occidentali di forze “populiste” e comunque anti-sistema. Ma anti-sistema fino a un certo punto, nella misura in cui la forte insoddisfazione dei cittadini verso le forze politiche tradizionali fa ormai parte del sistema stesso. Complementare a ciò, rimane il fallimento delle forze socialdemocratiche, esemplificate nel Bel Paese dal disastro del PD renziano, ma ormai parte di un trend assodato: dalla Grecia alla Spagna ed alla Germania, passando per Francia, Olanda ed Austria. Unici a salvarsi, in qualche maniera, rimangono Portogallo, con la sua coalizione di sinistra, e il Labour Party Corbyn style in Gran Bretagna.
Di Maio dice di esser pronto a far partire una Terza Repubblica post-ideologica, reiterando, come un disco rotto, che non esiste una differenza tra destra e sinistra, mentre il padre fondatore Grillo descrive il suo movimento, che in realtà ormai è un partito, come una specie di nuova democrazia cristiana: un po’ di sinistra, un po’ di destra e un po’ di centro, aperta al dialogo con tutti.
Interessante la reazione della Confindustria alla vittoria pentastellata: non ci preoccupa più di tanto, dice il capo Boccia, mentre Marchionne se ne esce fuori con un: “Abbiamo visto di peggio”. Questo a conferma della lenta, ma sicura, trasformazione del M5S in una forza sempre meno anti-establishment.
Salvini insiste che dev’essere lui a fare il primo ministro ma l’ex-cavaliere B. non gli dà la luce verde in automatico, insistendo che è lui che continuerà a fare il regista della coalizione di centro-destra. Questo a confermare, a dir poco, la fragilità della loro alleanza.
Intanto Renzi dichiara in una conferenza stampa – che in realtà è un comunicato stampa – di voler dare le dimissioni, ma si tratta di dimissioni “congelate” visto che dice di volersi togliere di mezzo solo dopo la formazione del governo, lasciandosi quindi il diritto di escludere alleanze, insistendo anzi che il PD deve diventare una forza di opposizione e basta. Questo atteggiamento ha subito scatenato malumore nel partito, laddove il suo avversario interno Michele Emiliano prospetta un’alleanza con niente meno che il M5S.
E’ da vedere se l’imminente congresso di partito programmato porterà una minima chiarezza strategica. C’è poi una novità: Calenda, l’attuale Ministro per lo Sviluppo Economico, entra ufficialmente nel PD. Una serie alternativa a Renzi, reputato dai più come il responsabile primario del catastrofico risultato? Però anche Calenda esclude un’alleanza con il M5S. I giochi sono più che mai aperti.
Notare che il secondo partito italiano non è tanto il PD, ma il partito degli astensionisti, che hanno raggiunto il 73% degli elettori, il più alto nella storia della repubblica. Stiamo quindi parlando del 27% dell’elettorato, praticamente 8 punti in più rispetto al PD stesso. Secondo gli osservatori la maggior parte degli astensionisti sono gli elettori di sinistra delusi, ma che, diversamente da molti, non sono confluiti nel M5S.
Evidentemente le alternative a sinistra del PD, ossia LeU e Potere al Popolo, non sono riuscite ad attrarre molti elettori, vuoi perché sono arrivati un po’ troppo in ritardo, o perché visti come forze deboli, pur avendo LeU in particolare, coinvolto personaggi seri ed istituzionali come Grasso e Boldrini.
Ma al di là di tutto questo rimane il fatto che, grazie alla famigerata legge elettorale, nessuna forza politica da sola ha i numeri sufficienti per creare un governo. E questo, ironicamente, fa del PD il potenziale, classico ago della bilancia. Già nella elezione dei presidenti delle camere, inevitabile passaggio previo ad un’eventuale formazione di un governo, si vedrà se delle alleanze operative saranno possibili. L’alternativa è il ritorno alle urne, magari preceduta dalla nascita, come molti sperano, di una nuova legge elettorale.
Discute i risultati elettorali con YOUng Nadia Urbinati, nota politologa, e docente presso la Columbia University a New York.
L’INTERVISTA:
La sorprendono i risultati elettorali?
Mi sorprendono, ma non completamente.
Perché?
Mi sorprende l’espansione del M5S e il fatto che la Lega, come partito, abbia superato Forza Italia, ma non mi sorprende più di tanto la vittoria della Lega: era attesa. Mi sorprende poi questo monocromatismo pentastellato nel Sud.
In ogni caso questi risultati confermano l’avanzata del populismo.
Se per populismo s’intende una reazione contro l’establishment, sono d’accordo, però c’è una differenza. Quelli del M5S possono essere definiti populisti nel senso tradizionale: mettono insieme tutti, al di là di destra e sinistra. Parliamo di una forza del popolo, al di là delle divisioni tra il popolo, con la sua critica all’establishment dei partiti.
Cosa ne pensa dell’insistenza dei leader M5S nel rifiutare una differenza tra destra e sinistra?
Questa insistenza nasce dall’osservazione, alla quale non si può dare tutti i torti, che i partiti tradizionali, quelli che sono nelle istituzioni, pur dicendosi di destra o di sinistra, sono in realtà diventati tutti mainstream, tutti centristi. Quindi loro dicono di essere dei cittadini, dei normali cittadini, e vogliono essere considerati come tali.
Di Maio parla di una Terza Repubblica post-ideologica.
Questa è la scoperta dell’acqua calda. E’ dal 1962 che si dice ormai che l’ideologia sta morendo. Comunque si parla qui di un movimento di cittadini traditi.
E la Lega invece?
La Lega è un’altra cosa: è un progetto nazionalista, non è un progetto per tutti, e non fa un discorso ecumenico.
Adesso comunque, visto il Rosatellum, sarà necessario fare delle alleanze, che nel caso del M5S potrebbe essere con un PD de-renzizzato, o con la Lega.
Premessa: le alleanze sono necessarie, fanno parte della democrazia costituzionale, checché ne dica Renzi, Detto questo, ora sarà un po’ dura, soprattutto per i perdenti. L’alleanza M5S-Lega è impensabile, anche se Renzi, per motivi elettorali, ha fatto credere che sia una possibilità. Quindi, nell’attuale assetto tripolare, l’ago della bilancia è proprio il PD, ed è per questo che Renzi ha difficoltà a dimettersi sul serio, e rischia di paralizzare tutto.
Quale sarebbe lo scenario preferito da Renzi?
Andare ad elezioni anticipate e dimostrare l’ingovernabilità di cui gli altri due gruppi sono responsabili.
Altro scenario possibile: un PD de-renzizzato che si sposta nuovamente a sinistra e che, insieme ad altre forze recupera, consensi.
Sì, questo è possibile, a conferma che tutta la battaglia è proprio all’interno del PD. Se non c’è una rottura interna a questo partito, le elezioni anticipate tra pochi mesi sono inevitabili.
Cosa dire del successo da parte del M5S nel Sud? Sembrerebbe il risultato di una crescente insoddisfazione in una delle parti più abbandonate e meno privilegiate del paese.
Il Sud, come sappiamo, per tradizione, è un laboratorio di tumulti, di caos, ma anche d’innovazioni. Qui c’è poi sempre stata una tendenziale diffidenza verso i partiti. Indicativo il fatto che nel referendum del 1946 qui s’imposero i monarchici. Ed anche la sinistra ha avuto non poche difficoltà in questa parte del paese. Il M5S ha raccolto voti in un Sud diseredato, che non ha servizi, con la maggior parte delle famiglie che ha difficoltà ad arrivare a fine mese, con una delinquenza che nasce dalle difficoltà economico-sociali, e dal disagio e dalla disoccupazione, soprattutto tra le nuove generazioni. Il M5S si è imposto proprio in mancanza di una sinistra operante ed attiva. E se la Lega non fosse nata col marchio nordista, anch’essa, vista la sua attenzione a certe istanze sociali, avrebbe avuto successo.
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Quindi la sinistra, almeno quella del PD renziano, ha tradito questo Sud diseredato?
Sì, nella misura in cui questo partito è più dalla parte di una classe operaia che è ormai diventata classe media, coi figli all’università, o negli uffici o professionisti. Quindi non rappresenta più le classi popolari in senso lato, come fa invece il M5S.
Il fallimento del PD, come delle socialdemocrazie in generale, ormai comune in buona parte dell’Europa non è dovuto al loro spostamento al centro?
La domanda è: perché si sono spostate al centro? Perché difendono solo gli interessi di certe classi, magari anche quelle operaie che ormai fanno parte della democrazia a pieno diritto. Ma i nuovi emarginati non hanno questa sinistra dalla loro parte. Se la sinistra era nata per includere, ora è solo dalla parte degli inclusi.
Tutto è cominciato con Blair, a capo dei laburisti in Inghilterra ed è poi continuato oltre Atlantico con Bill Clinton.
Ma, di nuovo, perché hanno difeso solo la classe media che hanno contribuito a creare. A questo si aggiunge il fatto che hanno lanciato il mercato, abbracciando l’idea della privatizzazione dei servizi pubblici.
Ma, ricordando che il Jobs Act renziano, come la Loi du Travail del socialista Hollande in Francia, sono stati scritti dalle relative confindustrie, c’è da notare l’endorsement indiretto della Confindustria italiana nei confronti del vittorioso M5S, il quale, nel suo programma, si appella anche al liberalismo.
Ma certo, ed ecco perché bisogna stare attenti: il M5S non ha un’ideologia, prende un po’ qui e un po’ là, e soprattutto non ha una visione di classe. Basa la sua forza principalmente sullo scontento. Ed è proprio questo il populismo. Non sono contro il libero mercato. Vogliono solo che il popolo non sia bistrattato ed abbandonato.
Però questo lo dice anche Salvini.
Sì, ma Salvini parla di nazione italiana.
Rimane però una certa ambiguità del M5S per ciò che riguarda l’immigrazione e l’anti-fascismo.
Beh, il populismo significa anche questo. Non possiamo aspettarci dai pentastellati delle posizioni che in realtà non hanno.
Venendo a Liberi e Uguali, una delle critiche mosse soprattutto alla componente dei transfughi dal PD, i vari Grasso, Bersani, D’Alema e Civati, è di essersi mossi troppo tardi.
Posso dire che non è facile lasciare un partito. E’ difficile abbandonare la propria “ditta”. Ecco perché ci hanno impiegato così tanto. Io sarei rimasta dentro, magari battagliando di più per imporre la mia posizione. Ma col senno di poi son piene le fosse. Chiaramente sarebbero rimasti in un PD non dominato da Renzi.
E Calenda?
Lui ora tenta la scalata, magari offrendosi come un’alternativa a Renzi. Sarebbe forse un Renzi caratterialmente più accettabile, ma anche lui è un liberalista, e quindi l’impostazione di fondo dell’attuale PD, liberale e non social-liberale, rimarrebbe.
Si è parlato anche della possibilità che Renzi crei il suo partito, un po’ stile Macron.
Beh, anche lì è una questione di tempismo. Renzi, così guascone, autoritario e vanesio, se ne sarebbe dovuto uscire dal PD e creare il suo partito subito dopo la sconfitta nel referendum del dicembre 2016, ma non l’ha fatto. Ora lui rimane comunque nella posizione di creare il suo partito centrista liberale. Ed ecco perché la più grossa partita si gioca più che mai all’interno dello stesso PD.