Da un po’ di tempo, ormai, si parla delle conseguenze dell’effetto serra sulle montagne in tutto il globo. La più evidente conseguenza è il graduale ritirarsi dei ghiacciai, con tutti gli effetti collaterali sia per ciò che riguarda l’ecosistema montano che sull’economia del turismo.
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Ma le problematiche non sono solo quelle legate ai cambiamenti climatici. Altra fonte di preoccupazione è il crescente abbandono delle zone montane da parte della popolazione, e ciò ha un impatto non solo sull’economia locale, ma anche sullo stesso ecosistema.
In questo contesto è importante ricordare la creazione, nel 2002, della Mountain Partnership da parte delle Nazioni Unite: un’alleanza volontaria internazionale che si dedica al miglioramento della vita per le popolazioni montane ed alla salvaguardia dell’ambiente montano in tutto il mondo. Questa partnership nacque dietro lo stimolo dell’Italia, della Svizzera, della FAO e dell’UNEP (United Nations Environment Programme – il Programma per l’Ambiente dell’ONU) ed ha sede a Roma. Ne fanno parte 53 nazioni, 14 organizzazioni inter-governative e 167 enti della società civile. Lo scorso dicembre c’è stato un rilancio della Mountain Partnership in occasione della Giornata Mondiale delle Montagne.
Ne parla con YOUng Grammenos Mastrojeni, un diplomatico italiano, coordinatore per l’ambiente della cooperazione allo sviluppo, ed eletto a dicembre presidente della Mountain Partnership, ed autore (insieme al fisico del clima Antonello Pasini) di “Effetto serra, effetto guerra. Clima, conflitti, migrazioni: l’Italia in prima linea” (Chiarelettere), un volume che non solo illustra le conseguenze dei cambiamenti climatici sui flussi migratori, e su certe situazioni geopolitiche che poi portano a conflitti e guerre, ma che ci fa capire come una presa di coscienza di questi sviluppi potrebbe favorire l’esistenza di un mondo più armonico e pacifico. Il volume contiene un intero capitolo dedicato al ‘problema montagne.
L’INTERVISTA:
Ci parli del rilancio della Mountain Partnership a dicembre.
Più che altro è stata un’amplificazione dell’opera portata avanti dalla Mountain Partnership.
Qual è la sua funzione precisa nell’ambito di questa organizzazione?
Sono un diplomatico e sono responsabile per tutti i programmi di cooperazione ambientale coi paesi in via di sviluppo. Inoltre sono un negoziatore italiano nelle grandi convenzioni sul clima e sulla biodiversità. E’ importante sapere che l’Italia è stata eletta a presiedere la Mountain Partnership.
Uno dei problemi fondamentali per ciò che riguarda le montagne rimane l’effetto serra?
Sì, pero questo s’immette in una dinamica che si auto-amplifica insieme ad altri aspetti del degrado ambientale.
Quali?
Bisogna capire che le montagne hanno delle situazioni particolarmente vulnerabili, perché calibrate sul range della temperatura, sulla presenza della neve e sulla posizione ghiacciai che si sono sempre comportati in un certo modo. Intanto l’ecosistema montano rischia, a catena, di andare a collassare. Da un lato è bene lasciare le montagne selvagge, con una natura incontaminata, dall’altro bisogna ricordare che le montagne hanno anche creato un certo ecosistema attraverso l’interazione con l’uomo: parliamo di agricoltura, pastorizia, eccetera.
Cosa può succedere quindi?
In pratica comincia a collassare questo ecosistema, che dava da mangiare alle genti di montagna, attraverso l’interazione tra ghiacciai, biodiversità, degrado dei suoli, erosioni. E tutto questo sta portando ad un crescente peggioramento delle condizioni di vita.
Ha parlato di effetto a catena: come funziona esattamente?
Questo fenomeno è una tragedia per chi vive in montagna, ma è anche una tragedia per tutto ciò che c’è a valle: lo squilibrio idrogeologico in montagna poi si riflette in un pesantissimo squilibrio, sempre idrogeologico, a valle, che mette a repentaglio la sicurezza di tutti quanti.
Lei ha parlato dell’abbandono dei pascoli come un elemento grave.
Questo è un buon esempio: con la riduzione delle mandrie nei pascoli montani finisce anche per ridursi la fertilizzazione del suolo, e ciò ha delle conseguenze nocive.
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Si nota che, a differenza delle fasce desertiche e delle isole, le montagne, nel loro insieme sono in qualche maniera “sotto-rappresentate”, nel contesto della problematica climatico-ambientale.
Il problema non è stato percepito con la stessa chiarezza come in altre regioni con ecosistemi fragili. Dobbiamo andare a vedere quelle zone dove ecosistemi fragili si sovrappongono a sistemi sociali fragili: qui s’innescano delle dinamiche di destabilizzazione.
Un esempio?
Il Sahel, dove queste dinamiche hanno finito per fomentare illegalità, emigrazione, terrorismo. La differenza è che il Sahel è una fascia unitaria.
Le montagne in contrasto?
Queste dinamiche sono più difficili da percepire perché sono sparse: un po’ in Nepal, un po’ nelle Ande, un po’ nelle Alpi, un po’ nei Carpazi, e via dicendo. Il fatto che queste zone siano, appunto, sparse, ne rende la problematica più difficile da percepire rispetto a zone più omogenee.
Ci sono delle statistiche sul rapporto tra le problematiche montane ed il fenomeno migratorio?
Ci sono dei rilievi sul rapporto tra ambiente ed emigrazione, ma, e questo è il lato buono della frammentarietà di cui si parlava prima, la crisi delle montagne non ha dato luogo a movimenti di grande illegalità o a fenomeni di terrorismo.
Guardando allora la scena globale?
Le Nazioni Unite parlano di 230 milioni di migranti forzati in situazioni dove il fenomeno del degrado ambientale ha avuto un ruolo. Però attenzione: non si può isolare il fattore ambientale da tutto il resto.
In che senso?
Il fattore ambientale diventa uno di maggiore stimolo al fenomeno migratorio là dove ci sono già degli elementi di fragilità sociale, economica, politica, storica.
Un esempio eclatante?
Il famoso conflitto siriano è stato preceduto da quattro anni di siccità mai vista prima, che ha portato circa 1,8 milioni di persone dalle campagne alle città. Questo fenomeno ha creato una pressione economico-sociale molto forte ed in cui poi il conflitto è fermentato.
Però non ne è stata la causa…
Certamente non ne è stata l’unica causa, ma è stato un po’ la goccia che ha fatto traboccare il vaso, in una situazione che aveva già delle sue fragilità politiche internazionali.
Un altro esempio?
Boko Haram: non si può dire che il cambiamento climatico ha provocato Boko Haram, ma l’ha senz’altro amplificato, perché ha portato il restringimento di 18 volte del lago Ciad, e questo a sua volta ha generato, a catena, delle situazioni terribili d’insicurezza per il futuro, d’insicurezza alimentare.
Poi naturalmente ci sono delle forze che ci soffiano sopra.
Sì, ci sono delle dinamiche che si auto-alimentano perché poi s’innestano degli interessi particolari. Noi comunque abbiamo censito questo tipo di dinamiche in 79 diverse aree del luogo: si può trovare la lista sul sito di ECC Factbook.
Visto che, come lei fa giustamente notare, la problematica legata alle montagne è non solo di tipo ambientale, ma anche economico-sociale, cosa sta facendo l’Italia in questo frangente?
Innanzitutto non dimentichiamo che è stata proprio l’Italia, insieme alla Svizzera, a dare il via alla Mountain Partnership, e per gli ultimi 15 anni l’abbiamo praticamente finanziata solo noi.
Certi fanno notare che paesi come Svizzera, Austria e Germania già si stanno muovendo per la tutela delle montagne ormai da 50 anni.
Beh, una cosa è quello che uno fa a protezione del proprio territorio, un’altra quello che si fa a livello globale. Ora, sia a livello regionale, provinciale e locale l’Italia non è stata esattamente con le mani in mano, anche perché l’Italia, come l’Austria o la Germania è un paese sviluppato e vede le potenzialità di reddito nel campo del turismo e dell’industria alimentare provenienti dalle montagne. Poi ci sono delle convenzioni europee per la difesa delle Alpi, come per quella dei Carpazi. Lo stesso si può dire per le Montagne Rocciose negli USA, dove si dà molta importanza all’aspetto turistico. Ma questo è il “paradiso”.
Dov’è l’inferno allora?
Il problema vero comincia ad esserci con le montagne del Ruanda, con quelle del Nepal, con le Ande, dove ci sono delle azioni spontanee, alle quali noi collaboriamo, dove noi portiamo anche un contributo, anche attraverso le nostre università che offrono tecnologie straordinarie per mantenere questi ecosistemi. Ma ripeto, il vero problema è che nel grande negoziato sul clima e sulla biodiversità, non è stato colta l’unitarietà del ‘problema montagne’. Si è seguito il ‘problema isole’ e il ‘problema deserti’, il che è giustissimo, ma non possiamo dimenticare quello delle montagne, che è pesante quanto gli altri. E in questo frangente è importante il fattore pubblico.
Ossia?
C’è un aspetto molto bello della democrazia, ma che a volte porta a un rallentamento, e noi dobbiamo colmarlo.
Cosa intende per rallentamento?
Com’è giusto, nelle democrazie, i policy-maker cercano di risolvere le priorità espresse dal pubblico. Siccome il pubblico è il primo a non sapere che questo sta succedendo, noi abbiamo bisogno che la consapevolezza della bomba ad orologeria montagne sia diffusa.
E questo può essere fatto come?
Tramite i media soprattutto. Noi stiamo cominciando una campagna per far arrivare a tappeto il messaggio su tutti i media. La priorità è che i media facciano arrivare al pubblico l’importanza di questa nostra missione. Non è una questione di cattiveria da parte del pubblico, ma una di semplice ignoranza.