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Venti di Guerra in Medio Oriente?

Postato il Novembre 16, 2017 Attilio De Alberi 0

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Secondo certi osservatori la Seconda Guerra Mondiale, se guardata più da vicino, fu in realtà una “guerra regionale”, nella misura in cui nasceva dagli interessi politico-economici della Germania in Europa e del Giappone in Asia. Poi entrarono in ballo potenze esterne come USA e USSR e i conflitti divennero, appunto, mondiali. Qualcosa di simile si teme possa avvenire in Medio Oriente e non è un caso che ciò avvenga con la fine dell’ISIS, almeno come sedicente stato con un suo territorio. 

Ormai è chiaro da tempo che i due grandi opponenti in Medio Oriente siano la monarchia sunnita dell’Arabia Saudita e la teocrazia sciita dell’Iran. Chiaramente l’opposizione non è solo di carattere religioso, ma soprattutto di carattere politico-economico.

Chiaramente gli altri principali attori in campo rimangono gli USA di Trump e la Russia di Putin. Dietro l’Arabia Saudita ci sono gli Stati Uniti (insieme a Israele) e dietro l’Iran c’è la Russia, anche se quest’ultima cerca d’intrattenere buone relazioni sia con i sauditi che con gli israeliani.

A parte la recente crisi libanese, la grossa questione rimane quella del futuro assetto mediorientale, soprattutto per ciò che riguarda il futuro di Assad ed il ruolo dell’Iran, che, proprio grazie sia alla guerra civile in Siria che alla guerra contro l’ISIS, si è assicurato un corridoio d’influenza strategica che giunge fino al Mediterraneo.

Discute di questo Lorenzo Marinone, analista presso il Centro di Studi Internazionali a Roma, esperto di Medio Oriente e Nord Africa, secondo il quale l’opposizione di tipo religioso rappresenta solo uno dei tanti elementi che vanno a spiegare la crescente contrapposizione tra Arabia Saudita e Iran.

Moḥammad bin Salmān Āl Saʿūd

Moḥammad bin Salmān Āl Saʿūd insieme a Vladimir Putin

L’INTERVISTA:

Cosa pensa della possibilità di uno scontro regionale aperto tra Arabia Saudita e Iran?

Credo che, in realtà, la possibilità di uno scontro militare diretto sia remota.

Perché?

Innanzitutto perché non converrebbe a nessuno dei due attori: sarebbe uno scontro troppo impegnativo. In secondo luogo bisogna vedere le capacità specifiche.

Quali?

Da un lato abbiamo l’Iran, maestro nell’utilizzare proxy, maestro nell’utilizzare la guerriglia, ma con capacità ridotte nell’uso di armi convenzionali. Dall’altro c’è un’Arabia Saudita, che pur essendo, da decenni, un acquirente compulsivo di armamenti, non ha una capacità militare molto sviluppata.

Al tempo stesso il conflitto tra Iran e Arabia Saudita, anche se non apertamente militare, è sotto gli occhi di tutti, ultimamente in Libano. Ma qui sembra che siano gli USA a voler frenare, in qualche modo, l’Arabia Saudita.

Anche se, con la visita di Trump a Riyad lo scorso maggio è stato confermato il pieno appoggio USA alla monarchia saudita, sembra esserci una tendenza allo smarcamento dalla situazione mediorientale nel suo complesso.

Ma questo era già iniziato sotto l’amministrazione Obama.

Sì, ma ora la tendenza continua e si sta rafforzando.

Motivazione?

Gli USA sembrano optare per una concentrazione di attenzioni e di forze sul quadrante asiatico, in particolare sulla Cina.

Rimane comunque una differenza tra Obama e Trump per ciò che riguarda la politica verso l’Arabia Saudita.

Certamente, grazie soprattutto all’Irandeal, con Obama si era giunti al punto più basso nei rapporti con la monarchia saudita. Con Trump e la sua opposizione all’Iran c’è stato un chiaro riavvicinamento e quindi, a netto della tendenza allo smarcamento, vengono tollerate di più certe posizioni saudite.

Tolleranza senza connivenza quindi?

Possono esserci interessi comuni e uno di questi è appunto la chiara pressione saudita verso l’Iran. Al tempo stesso gli USA cercando di trovare una forma di equilibrio, e l’esempio del Libano lo dimostra: la pressione sull’Iran va bene, ma si cerca di evitare situazioni apertamente destabilizzanti.

Per i sauditi in Libano il grande nemico è Hezbollah, ma questa forza sembra essersi integrata nel paese al punto che anche Michel Aoun, cristiano, presidente dal 2016, l’accetta.

Il ruolo sia militare che politico di Hezbollah si è ormai consolidato da tempo.

Soprattutto come funzione di difesa contro eventuali invasioni israeliane.

Sì, è chiara la sua funzione dichiarata come entità anti-sionista in difesa della causa palestinese, ma bisogna sottolineare che Hezbollah è anche un vero e proprio partito politico al governo, quindi non più un outsider. La vera novità è stato il coinvolgimento di Hezbollah in Siria.

In che senso?

Hezbollah ha contribuito, insieme all’Iran, suo stretto alleato, a quella che viene vista come una vittoria di Assad contro i suoi nemici interni, e questo l’ha rafforzato.

Il Libano ultimamente sembra essere più stabile.

Sì, in questi ultimi anni, nonostante la guerra nella vicina Siria, il paese è riuscito a congelare le tensioni interne della guerra civile, evitando uno spillover del conflitto siriano. Ora che questo conflitto sta giungendo a un termine, Hezbollah, che fa parte della compagine governativa, vuole approfittare della sua posizione di forza. La recente elezione di Aoun a presidente ne è un esempio. Il prossimo appuntamento sono le elezioni politiche, le prime dal 2009, che si terranno in primavera.

Come si pone l’Arabia Saudita in questo scenario?

La monarchia saudita sta uscendo indebolita dalla vittoria di Assad, ottenuta anche grazie a Hezbollah, ed ora teme un indebolimento della sua posizione anche in Libano.

In tutto questo che posizione ha il primo ministro Saad Hariri?

Hariri è il leader del Partito Futuro, la principale formazione sunnita in Libano, e ormai da decenni la sua famiglia ha stretti legami con la monarchia saudita, soprattutto, grazie a una serie di imprese, a livello economico.

Quindi, al di là di tutte le speculazioni del caso, cosa c’è dietro le dimissioni di Hariri?

Il desiderio di uscire dalla coalizione di governo che vede presente Hezbollah per poi contrapporsi autonomamente ad esso in campagna elettorale. Questo è quindi un favore fatto all’Arabia Saudita nel tentativo d’indebolire politicamente Hezbollah.

Quale può essere il risultato di questa mossa?

L’esito non è scontato: dopo tutto Hezbollah, che, non dimentichiamo è sciita può contare su un sempre più forte appoggio interno, quindi non è detto che l’idea delle dimissioni possa funzionare a favore dell’Arabia Saudita.

Come si pone Israele nell’ambito di questa “offensiva” saudita, visti la sua relativa vicinanza a Riyad e l’atteggiamento di confronto con l’Iran?

In questo particolare momento Israele non può permettersi di aprire nuovi fronti vista l’estrema debolezza del governo Netanyhau in questo momento.

Ma Netanyhau si è un po’ rafforzato con la presidenza Trump…

E’ vero, ma anche la politica interna ha il suo peso: Bibi ha una maggioranza assai risicata in parlamento e gli attacchi della destra estrema possono erodere il suo consenso. Inoltre stanno per colpire la sua persona degli scandali che hanno già coinvolto la sua cerchia ristretta di collaboratori. In questo frangente, un coinvolgimento militare contro Hezbollah, che, come tutti ben ricordano, già nel 2006 diede filo da torcere a Israele, sarebbe difficile da attuare.

A proposito di milizie sciite, dalla guerra contro l’ISIS sono uscite molto rafforzate le milizie Hashd al-Shaabi che si sono affermate in Iraq.

Sì, e queste milizie sono anche operative in Siria, non solo contro l’ISIS, ma anche contro i ribelli anti-Assad, e fanno parte dell’espansione militare-politica dell’Iran, al quale sono strettamente legate.

Per ciò che riguarda il futuro assetto in Siria, gli USA sembrano voler comprare tempo e spingono per nuovi colloqui a Ginevra, invece dei soliti colloqui organizzati dai Russi ad Astana e dai quali sono assenti.

Il punto è che negli ultimi mesi gli USA non sono irrilevanti, ma sono stati messi da parte dagli sforzi russi, non solo ad Astana, ma anche in una serie di colloqui locali. Il principale referente per Washington sono ormai solo le forze curde del Rojava, e anche qui è da vedere fino a che punto ci sia una vera comunanza d’intenti tra gli USA e la leadership curda siriana.

Sulla scia della sua affermazione militare quale potrà essere l’attitudine di Assad verso il cantone libero del Rojava?

Negli ultimi anni la relazione tra il regime di Assad e i curdi siriani è stata estremamente pragmatica, e raramente si è giunti allo scontro, anzi, i due si sono trovati a combattere insieme non solo contro ISIS, ma anche contro i ribelli. Ora si tratta di negoziare un nuovo assetto tenendo conto del rafforzamento di Assad.

Qual è il prossimo passo in questo contesto?

La Russia sta sponsorizzando una conferenza per un colloquio tra le varie forze siriane, curdi compresi, che si terrà nelle prossime settimane. Diversamente da Astana, non sarà presente la Turchia, principale nemico del Rojava, visto i suoi rapporti col PKK, che potrebbe mettere qualche veto.

Visto che si parla di guerra by proxy tra Arabia Saudita e Iran, questa non sta già avvenendo in Yemen?

Fino a un certo punto: in realtà l’appoggio dell’Iran per gli Houthi è più che altro ideologico: essendo l’unico confine terrestre quello con l’Arabia Saudita, e poi grazie al blocco navale, è un po’ difficile per l‘Iran supportare militarmente i ribelli. In realtà la situazione in Yemen per i sauditi è stata sempre una questione interna, visto che considerano il paese una specie di cortile di casa.

Autore

  • Attilio De Alberi
    Attilio De Alberi

    Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.

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#arabia saudita#iran#Lorenzo Marinone#Medio Oriente

Pubblicato da

Attilio De Alberi

Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.


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