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Viaggio a Molenbeek il quartiere “maledetto” di Bruxelles

Postato il Dicembre 2, 2015 Attilio De Alberi 0

Per leggere questo articolo ti servono: 7 minuti

Avevamo progettato un viaggio a Bruxelles da tempo, molto prima che l’attacco jihadista a Parigi e le sue conseguenze avessero trasformato la capitale belga, nonché capitale di un’Europa che in realtà non esiste ancora, o esiste solo in parte, in un luogo apparentemente pericoloso.

Arriviamo proprio alla fine di quei quattro dannati giorni in cui la metropoli era diventata una città fantasma. Finalmente le scuole si sono riaperte e il metrò funziona, anche se solo fino alle 10 di sera. Ma intanto dappertutto continuano a vedersi soldati in assetto di guerra. Ci colpisce la loro nutrita presenza di fronte a un normale teatro dove mostrano l’ennesima versione di Cabaret. La prima sera vado con amici in un jazz club, ma a godersi le note di un ottimo sassofonista sono quattro gatti. La tensione rimane alta e notizie di blocchi autostradali e nuovi blitz anti-jihadisti si susseguono. Un po’ buffa la scoperta di antrace nella grande moschea della città, rivelatasi poi essere comune farina. Intanto l’affluenza nella zona centrale della città rimane minima. Il sabato sera i ristoranti sono semivuoti. Insomma: lo stato di guerra in tanti piccoli modi sussiste.

Un lungo articolo di prima pagina del New York Times ci aiuta a capire meglio come funziona, ommeglio non funziona, questo paese. La signora Françoise Schepmans, sindaco di Molenbeek, il noto quartiere arabo a una fermata di metrò dal centro, aveva ricevuto un mese prima dei fatti di Parigi una lista di 80 persone sospettate di militanza jihadista, con tanto di nomi e indirizzi precisi. Tra questi c’erano i due fratelli – tra i quali il ricercato Salah, che non è a Pordenone, ma ormai al sicuro in Siria – che hanno partecipato all’attacco del 13 novembre, nonché Abdel-hamid Abaaoud, architetto della strage, residente di Moleenbeek, e reduce da un viaggio in Siria per andare a combattere a fianco di DAESH.

Senza addentrarci in teorie complottiste, rimane il fatto che il Ministero degli Interni belga, guidato da un nazionalista fiammingo, che ha dubbi se il Belgio debba esistere come singolo stato, non è riuscito, sulla base di queste informazioni chiave ad agire in maniera coordinata per sventare il micidiale attacco alla Città dei Lumi.
Mentre continuano le polemiche su quest’assurda e letale mancanza di “efficienza” in un paese assai diviso su basi linguistiche e amministrative (Bruxelles consiste di ben 10 comuni separati), ma altrimenti molto efficiente, decidiamo di visitare Molenbeek, la centrale, per ora, del terrorismo targato DAESH in Europa.
Capiamo subito che la presenza di soldati a ogni fermata del metrò in realtà ha forse più lo scopo di rassicurare una popolazione scossa che di evitare nuove stragi. Lungo la pensilina contiamo solo due militi, armati fino ai denti sì, ma che devono tenere sotto controllo due uscite/entrare e treni con tante porte. Chiediamo a uno dei giovani soldati a cosa possa servire, operativamente, la sua presenza lì per sventare un attacco. Con un sorriso ironico risponde: ”Dopo il fatto”. Altri passeggeri vicini sentono la sua risposta e sta per cominciare un’accesa discussione, ma arriva il treno e la cosa finisce lì.

All’uscita di Molenbeek come in tutto il quartiere non si vede l’ombra di un poliziotto o soldato. D’altra parte, ironicamente, il quartiere arabo è forse il posto più sicuro della capitale. E non è difficile capire il perché.
Passiamo davanti al municipio e attraversiamo la piazza del mercato dove si trova la casa dei due famosi fratelli, visibile dall’ufficio al secondo piano della signora sindaco, nella cui amministrazione, en passant, lavora il terzo fratello totalmente estraneo ai fatti.
Il furgone di un’emittente televisiva spagnola è parcheggiato in mezzo alla piazza, ultima testimonianza dell’assalto mediatico al quartiere. La troupe ha finito il suo lavoro qui, ed è in partenza per Parigi. I giornalisti ci confermano che a Molenbeek tutto è tranquillo.
Infiliamo una via dove intravediamo un po’ di movimento e l’atmosfera sembra quella di un souk in una città araba qualsiasi e non solo per la fitta presenza di donne col velo. Su molte vetrine è visibile lo sticker con la parola Molenbeek laddove la lettera ‘o’ contiene il simbolo della pace.

Il dipendente algerino di un negozio di vestiti discount ci conferma che anche se tutto è calmo la paura rimane. Gli chiediamo se pensa che la convivenza tra culture diverse sia la soluzione e lui mi corregge sparando la parola “co-esistenza”.
Fermiamo un’elegante ragazza con il velo, studentessa di legge all’università. Teme un aumento dell’islamofobia già strisciante nel campo delle opportunità di stage e di lavoro future e ha già notato un atteggiamento “diverso” da parte dei suoi compagni di ateneo.
Pausa caffè in un bistrot Arab style: tutti uomini molto gentili e affabili, ma che non sembrano aver gran voglia di sbottonarsi di fronte alle nostre solite domande. Calma, ma anche diffidenza, o forse il semplice desiderio di esser lasciati in pace dopo la tensione degli ultimi giorni. E come se ci dicessero, velatamente: “Noi non c’entriamo nulla con il terrorismo”.
Le donne sembrano più aperte, meno sulla difensiva degli uomini. Due ragazze, una col velo e l’altra no, confessano di essere molto amiche, nonostante la distinta scelta sul come vestirsi.
Dietro il souk troviamo dei palazzi moderni circondati dal verde: sembra di essere in un qualsiasi quartiere medio-elegante di una qualsiasi città europea.

All’entrata di un palazzo vediamo un’araba col velo e una sua amica francese convertita all’Islam, e ci raccontano che la vecchia amministrazione comunale era più attenta ai bisogni della popolazione. Per giunta il sindaco era sposato con una marocchina. Poi arrivano quattro ragazze, una delle quali figlia della signora araba con la quale stiamo conversando. Tre col velo, una senza. Liceali. Anche loro, come la studentessa di legge ci dicono che l’atmosfera a scuola si è fatta più pesante. L’attitudine nei loro confronti da parte dei compagni di scuola è cambiata in qualche maniera.

Credit: Alessandro Vasta
Credit: Alessandro Vasta
Credit: Alessandro Vasta

Credit: Alessandro Vasta
Credit: Alessandro Vasta
Credit: Alessandro Vasta

Attraversiamo la strada, apriamo la porta bianca di un edificio dall’aspetto industriale e ci troviamo nella moschea Al Khalil, il luogo di culto ufficiale di Molenbeek. Ci togliamo le scarpe, attraversiamo la vasta sala ricoperta di tappeti dove alcuni fedeli si stanno già preparando per la preghiera della sera ed entriamo in un ufficio. Dietro una scrivania troviamo Sheikh Mohamed Tojgani, l’anziano iman del quartiere. Alle sue spalle una libreria. E’ circondato da uomini, tra i quali Mohamed Laroussi, algerino, professore di religione in pensione e ora direttore pro bono del centro. Intervistato da Le Figaro TV il giorno dopo l’attentato aveva confermato il desiderio di pace sociale della stragrande maggioranza dei mussulmani in Belgio come in tutta Europa.

Per qualche strano motivo l’iman, che è anche il presidente di tutte le comunità mussulmane nel paese, parla solo arabo, pur vivendo qui da molti anni, e Laroussi gentilmente fa da traduttore in francese.
Nella percezione dell’iman Tojgani c’è stato un aumento del 300% dell’islamofobia in Belgio dopo l’attacco a Parigi. La sua prima reazione alla violenza del 13 novembre è stata di solidarietà con le vittime, di condanna dei fatti e di riflessione pacata. Lo choc tra la popolazione araba di Molenbeek è stato grande, ricorda. Per lui la soluzione è un lavoro paziente di concertazione sociale, politica e religiosa tra tutte le associazioni di base: un’ulteriore divisione non potrebbe che peggiorare le cose. Gli raccontiamo della denuncia sul New York Times della mancata prevenzione dell’attacco partito proprio dalla sua comunità e lui parla di evidenti responsabilità politiche.

Qual è il profilo del terrorista islamista secondo lui? Un giovane che non frequenta la moschea e che passa molto tempo su internet. E poi incide la disoccupazione, tipicamente alta nei quartieri arabi, con il conseguente disagio sociale e l’isolamento. Il fratello dei due terroristi che lavora presso il comune non ha avuto, dopo tutto, grandi incentivi a dedicarsi al terrorismo suicida professionista.
Conviene con noi che questi giovani jihadisti sono delle classiche mele marce in fondo al barile, ma poi aggiunge che di fronte al fenomeno le scelte sono due: o gettare via le mele marce o gettar via tutte le mele. Per lui, ovviamente, la prima opzione è quella giusta. Una metafora contro l’islamofobia.
E quale potrebbe essere il suo messaggio telepatico a un musulmano che sta pianificando un nuovo attacco? Un semplice messaggio non basterebbe, risponde, ma ci vorrebbe un lavoro articolato a livello psicologico, sociale, culturale ed educativo.

L’iman conclude la nostra affabile conversazione ricordando che è contraddittorio uccidere in nome di Dio, essendo questo fonte di vita. Attacchi di questo genere sono attacchi all’intera umanità.
Commossi e rincuorati da queste ultime parole usciamo dalla moschea ormai quasi piena di soli uomini che pregano.
Ritorniamo al nostro mondo e la sera stessa ci rechiamo a una festicciola di compleanno organizzata da un gruppo di musicisti latino-americani in un famoso bar non lontano dal centro. Pensiamo subito: un obiettivo ideale per un attacco come quelli di Parigi, ma quando ci avviciniamo vediamo molti giovani da un po’ tutto il mondo che bevono, fumano, discutono e ridono fuori dal locale.

La cosa ci rassicura e più tardi, tra una birra e l’altra, ci rinfrancano le parole di una giovane lavoratrice belga, assai articolata e borderline Pasionaria, che conferma di aver superato la paura iniziale. “Rifiuto di farmi intimidire, quindi eccomi qua a vivere la mia vita di sempre” dichiara, “ma al tempo stesso so che è molto importante per tutti noi occidentali prenderci le nostre responsabilità e cercare di capire le cause profonde di questa enorme assurdità.”

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Pubblicato da

Attilio De Alberi

Attilio L. De Alberi, studente in Gran Bretagna e negli USA, lavora in pubblicità a Milano. Emigra a New York e poi a Los Angeles, dove lavora nel cinema e come giornalista. Rientrato in patria continua a dedicarsi al giornalismo, scrivendo per Lettera43 e per Il Manifesto. Ultimamente collabora part-time con Don Luca Favarin, prete alternativo in un dei suoi centri di accoglienza per immigranti nel cuore del Veneto leghista.


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