Nel 1991, quando fu sciolto il Partito Comunista Italiano per mano dello sciagurato Achille Occhetto (che avrebbe pagato questa scelta perdendo le elezioni e regalandoci i fantastici anni del berlusconismo), coloro che si opponevano a questa scelta decisero di fondare il Partito della Rifondazione Comunista (inizialmente Movimento per la Rifondazione Comunista ). L’obiettivo della nuova formazione politica era quello di portare avanti gli ideali comunisti anche dopo la fine dell’Unione Sovietica e la scomparsa, almeno in Europa, del comunismo storico novecentesco.
Le intenzioni, però, entrarono presto in conflitto con i fatti, ed il PRC divenne presto una delle ancelle del centro-sinistra, intraprendendo un rapporto di odio-amore con i governi di Romano Prodi. Ma veniamo ai giorni nostri, dove il centro-sinistra rappresenta quasi un vecchio ricordo nostalgico, nel momento in cui il Partito Democratico, erede storico del vecchio PCI, ha optato per una decisa svolta verso destra sotto la guida di Matteo Renzi. Come si può giustificare, alle condizioni odierne, l’appoggio di Rifondazione Comunista al PD nelle elezioni amministrative?
La scusa è la solita: le realtà locali non corrispondono al contesto nazionale. Ma come fa, un partito che nel suo nome porta ancora l’aggettivo “comunista”, ad appoggiare un altro partito che si trova in posizione di governo ed applica politiche sfacciatamente neoliberiste, colpendo duramente il mondo del lavoro? Come si fa, da una parte, a dire che il PRC vuole costruire l’alternativa di sinistra al PD e, dall’altra, ad appoggiare questa stessa forza politica, seppur in contesti locali? E stiamo parlando di quello stesso PD che, a Napoli, ha invitato a votare il candidato di centro-destra Giovanni Lettieri pur di non veder vincere “il pericoloso rivoluzionario” Luigi De Magistris.
Delle scelte di Rifondazione Comunista, si è capito ben poco. Non c’è stata infatti una posizione univoca per opporsi a Renzi ed al PD, ma mille diverse soluzioni che non fanno altro che creare confusione nei potenziali elettori (che, non a caso, non votano più PRC): con il PD da una parte, con una coalizione di centro-sinistra da un’altra, disciolti in formazioni di sinistra da un’altra ancora…
Eccoci, dunque, giunti al momento della risposta, che agli analisti più attenti è già chiara da tempo. Una risposta molto semplice, l’unica possibile: Rifondazione Comunista non è più un partito comunista. Nella migliore delle ipotesi, questo può infatti essere considerato come un partito social-democratico, riformista, che tenta goffamente di andare ad occupare quello spazio di centro-sinistra lasciato libero dal PD, vista la sua evidente svolta a destra. Un partito che vende continuamente la propria credibilità per ottenere qualche poltrona (quando e dove ancora vi riesce), ma che di fatto continua a perdere la fiducia dei propri elettori e dei propri militanti, quella base dove ancora c’è del fermento, e che continua a sostenere il partito nella speranza di vederlo svolgere il ruolo per il quale è nato: quello di opposizione al capitalismo ed a tutte le forze politiche liberiste.
Questa complessa situazione che si è venuta a creare nel quarto di secolo di vita del PRC, porta evidentemente ai disastri elettorali degli ultimi otto anni. Nessuno, infatti, può realmente votare Rifondazione Comunista in queste condizioni: di certo non lo può votare chi comunista non è, ma non lo può votare neppure chi resta comunista ma riconosce il carattere socialdemocratico del partito. Parafrasando il filosofo Diego Fusaro, dunque, potremmo dire la situazione del PRC è così riassumibile: “se Rifondazione Comunista smette di interessarsi a Marx e a Gramsci, io smetto di interessarmi a Rifondazione Comunista”. In conclusione, non sono gli elettori ed i militanti di Rifondazione ad aver abbandonato il partito, ma è il partito ad aver abbandonato i propri elettori e militanti. Ed il risultato non può che essere disastroso.