Domenica 11 giugno, si terrà a Porto Rico un referendum circa lo status dell’isola. Attualmente territorio non incorporato all’interno del Commonwealth degli Stati Uniti d’America, Porto Rico mantiene questo status sui generis sin dalla fine della guerra ispano-americana, nel 1898, che segnò la fine definitivo dell’impero spagnolo con la perdita delle ultime colonie da parte di Madrid (Cuba e le Filippine erano gli altri retaggi ancora esistenti del glorioso impero iberico).
IL REFERENDUM DEL 2012
Quello di domenica prossima non sarà il primo referendum organizzato sul tema nell’isola caraibica, la quarta per grandezza dopo Cuba, Hispaniola (il cui territorio è diviso tra gli stati di Haiti e Repubblica Dominicana) e Giamaica. In passato, si è già votato su tematiche molto simili in ben quattro occasioni, l’ultima delle quali nel 2012, quando i residenti portoricani furono chiamati alle urne lo stesso giorno delle presidenziali che regalarono il secondo mandato a Barack Obama.
In quell’occasione, una prima domanda chiedeva agli elettori se volessero o meno mantenere lo status attuale di territorio non incorporato dipendente dagli Stati Uniti: il 53,99% votò no, mentre il 46,01% si espresse per il sì.
La seconda domanda, che entrava in gioco solo nel caso di una vittoria del no al primo quesito, proponeva tre opzioni:
– l’indipendenza completa;
– lo status di “stato libero associato” degli Stati Uniti;
– la possibilità di divenire uno stato federato degli USA.
Con il 61,15% delle preferenze, gli elettori scelsero già allora di entrare a far parte della federazione statunitense come cinquantunesimo stato stato, il 33.34% dei votanti scelse la libera associazione, e solamente il 5,53% ha optò per l’indipendenza. Da notare, però, che un elettore su quattro tra quelli andati alle urne non rispose al secondo quesito.
IL QUESITO DEL 2017
Questa volta, in occasione del quinto referendum sullo status dell’isola, gli elettori portoricani avranno altre tre opzioni tra le quali scegliere. Inizialmente, in realtà, il quesito prevedeva solamente due opzioni, quella della completa indipendenza o libera associazione e quella dell’adesione agli Stati Uniti d’America come cinquantunesimo stato, ma proprio dalla Casa Bianca è arrivata la sollecitazione ad aggiungere la possibilità di mantenere lo status quo, ovvero quello di territorio non incorporato. Secondo il presidente Donald Trump e la sua amministrazione, infatti, bisognava tenere conto dei “cambiamenti demografici sopraggiunti negli ultimi cinque anni“.
Eletto lo scorso anno, l’attuale governatore dell’isola, il dodicesimo della storia, Ricardo Rosselló, si è espresso decisamente a favore dell’ingresso effettivo di Porto Rico negli Stati Uniti d’America, per mettere fine “al nostro dilemma coloniale che dura da cinquecento anni”. “Il colonialismo non rappresenta un’opzione”, ha dichiarato ancora, “è una questione di diritti umani. Ci sono tre milioni e mezzo di cittadini che chiedono democrazia. Gli Stati Uniti domandano sempre democrazia in altre parti del mondo, ma credo che non ne abbiano il diritto se non sono in grado di garantirla agli abitanti di Porto Rico”.
SONDAGGI E POSSIBILI SCENARI
Al momento, i sondaggi effettuati confermano le indicazioni del referendum del 2012. Il 52% degli intervistati, infatti, ha dichiarato di voler votare in favore dell’ingresso nella federazione statunitense, contro il 17% che vorrebbe mantenere lo status attuale ed il 15% che sarebbe favorevole all’indipendenza o alla libera associazione.
Ma quali sarebbero i vantaggi effettivi che Porto Rico avrebbe nel diventare a tutti gli effetti uno stato degli USA? Si tratta di questioni soprattutto economiche: si parla infatti di ben dieci miliardi di dollari di fondi federali che andrebbero ad aggiungersi a quelli che l’isola già riceve da Washington, la possibilità di commerciare liberamente con il continente e di entrare negli accordi stipulati dagli Stati Uniti con altri Paesi, compreso il NAFTA con Canada e Messico, ed il diritto di utilizzare il dollaro statunitense come propria valuta. I portoricani diventerebbero inoltre cittadini statunitensi a tutti gli effetti, e potrebbero votare per l’elezione del presidente.
Secondo Rosselló, anche Washington potrebbe avere i suoi vantaggi: “Geopoliticamente, potremmo creare dei benefici per gli Stati Uniti. Porto Rico diventerebbe un collegamento naturale con l’America Latina per il suo retaggio culturale e la sua vicinanza alla regione. Sarebbe un passo nella giusta direzione della storia avere uno stato ispanico”.
Qualunque sia l’esito del referendum, però, non è affatto certo che questo venga effettivamente rispettato, come del resto è già accaduto nel 2012. Nel caso dovessero verificarsi le previsioni dei sondaggi, l’ingresso di Porto Rico negli USA non sarà affatto automatico: il referendum, infatti, dovrebbe mettere in moto un iter legislativo sia a Porto Rico che negli Stati Uniti per arrivare all’inclusione dell’isola caraibica come cinquantunesimo stato federato.
Secondo la clausola territoriale inclusa nella Costituzione statunitense (Territorial Clause of the United States Constitution), è necessario l’intervento del Congresso per cambiare lo status ad un territorio dipendente dagli Stati Uniti. Congresso che, secondo le indiscrezioni, sarebbe intenzionato muoversi solamente nel caso in cui sia la maggioranza assoluta dei votanti ad esprimersi favorevolmente all’ingresso di Porto Rico nella federazione statunitense. In quel caso, forse, potremmo andare verso l’aggiunta di una cinquantunesima stella sulla bandiera degli USA.