Io sono io. Ho i miei interessi, le mie passioni, il mio lavoro, il mio impegno il mio modo di essere e di esserci, la mia fisionomia, il mio volto. Il mio carattere, bello o buono che sia. Io ci sono, è la via di mezzo tra un’intuizione ed una constatazione, tra un meno male ed un purtroppo. Volente o nolente, quello che sono, sono io. Sono unico. Certo, ci possono essere delle affinità con altri, chi siano gli amici, i familiari, la persona che ho accanto, ma io sono unico. Unico al mondo.
Molte persone si assomigliano, ma ognuna conserva la sua unicità. È, forse, questo una dei postulati migliori della vita. Anche quando si indossa una maschera o quando si lotta per costruirsene una che possa far apparire diversi, alla fine l’unicità comincia a venire a galla. Non si può fuggire dall’interpretazione – nel senso più letterale del termine, nell’accezione del «far conoscere» – da quella parte di me che legge quello che sono e che ho intorno e che mi fa trasparire, in un modo o nell’altro.
C’è chi vive il suo essere come un male, come un nemico da cui fuggire, più che da combattere. Ebbene, il risvolto dell’unicità è che non si può scappare. C’è chi ci mette una vita intera, chi spende il suo tempo a scappare, davvero, da quello che è. Ma, alla fine, non può fare a meno di essere raggiunto, anzi di raggiungersi in un unico girotondo che, prima o poi, ti porta a ritrovarti. Anche solo qualche minuto, la sera, nel letto, prima di addormentarsi.
Da qualche parte, nei Vangeli, c’è scritto che il Regno di Dio è simile ad un tesoro sepolto in un campo. Un uomo lo trova, poi va, vende tutti i suoi averi e compra quel campo per godere di quel tesoro. Da un’altra parte c’è scritto che il Regno di Dio è in mezzo a noi, che siamo noi il Regno di Dio. Volendolo intendere anche per chi non crede, questo vuol dire che la gioia, la pace, la pienezza, il luogo in cui tutto il bene del mondo si concentra è dentro di noi. Eppure nessuno corre a spogliarsi da tutto quello che continua ad avere intorno per godere del tesoro che è. Ognuno nasconde dentro un tesoro, un tesoro unico al mondo, eppure concesso ad ognuno, ma decide di non cercarlo, di non scavare, di passare altrove. C’è il campo e già mi appartiene. So anche che c’è il tesoro, ma non vado a cercarlo.
Antoine de Saint-Exupéry nel suo il Piccolo Principe scrive che è il tempo che si spende per qualcuno o qualcosa a renderlo speciale. A renderlo un tesoro. Il tempo, il lavoro nel tempo, la dedizione aiuta ad affinare la preziosità di ognuno nello stesso modo in cui il lavoro dell’orafo trasforma una pietra grezza od un lingotto di metallo prezioso in un metallo unico. Un metallo unico al mondo. Eppure il tempo che ognuno si dedica – se se lo dedica – punta molto spesso a limare l’estetica dell’essere, a renderlo un gioiello bello da guardare, da tenere anche nella vetrina di un negozio, magari sopra altri gioielli. Ma il risultato, al tatto, all’analisi attenta, finisce per segnalarlo come bijoux. Tanta bellezza, nessun metallo prezioso.
Ci si impegna nell’essere preziosi per gli altri, unici, irripetibili a tal punto da doverne sentire un bisogno assoluto, quasi incommensurabile. Ma quanto è prezioso ognuno per sé stesso, qual è il valore che ognuno si darebbe se si fosse, ognuno, perito di sé stesi? Un caro professore del liceo, a fine interrogazione ci chiedeva sempre di darci un voto. Di dare ognuno un voto a sé stesso per quanto prodotto in sede di prova orale. La materia non era scientifica, non era un calcoletto da esercizi con risultati certi, ma era orale ed era filosofia. Le risposte erano imbarazzanti, c’era chi si valutava molto poco o chi, nel dubbio, era pronto a sparare un voto altissimi (tanto sarebbe stato abbassato). Lui, invece, il prof, puntava al giusto. Alla giusta comprensione dei fatti ed alla correttezza del voto. Ed, anzi, provava a spiegare come e perché un voto sarebbe stato più o meno giusto di un altro.
Quanto sono prezioso a me stesso? Qual è il voto che do al mio impegno, al mio modo di vivere, al mio essere. Non è un discorso di valore destinato ad ordinare il mondo secondo il voto che ognuno assegna a sé stesso, ma un modo per comprendere quello che si è. Se mi guardo con occhi giusti, se mi apprezzo nel modo giusto, se guardo alla mia unicità, preziosità nel modo opportuno, allora stabilisco un punto di partenza. Ogni giorno. Tutti abbiamo dei sogni, degli obiettivi e per portarli a termine è necessario sapere da dove partire.
Allo stesso modo ognuno di noi è unico per qualcuno, per che chi lo ama ed apprezza ogni giorno. Ed è vero il contrario, apprezzando ed amando chi è accanto. Siamo unici per gli altri, abbiamo ognuno un unico al mondo ma non sappiamo essere unici per noi stessi. È come ragionare con un tesoro – uno vero, con tanto di forziere come quello dei pirati – che gioca a non esser tale: «non sono d’oro, ti sbagli, sono solo di ferro». Fin quando non si dà al cuore il giusto peso della sua unicità, allora nulla ha un vero senso, è solo un accumulare ed accumulare ed accumulare. Accumulare vita ed esperienze. Anche a costo di farsi solo male.
Nel milione di cose che facciamo e che faremmo farci stare meglio e per far stare meglio chi amiamo, non ha senso nulla se ognuno non decide di darsi il giusto valore, prendendo la tua vita per mano ed a portandola lontano. È una scelta… tu cosa vuoi fare? Sei pronto ad essere unico al mondo?