“La bellezza salverà il mondo“. Così il principe Myškin ne L’Idiota di Dostoevskij, riferendosi all’ideale dell’unione del buono e del bello. Un obiettivo difficilmente conseguibile, giacché la realtà tende ad affogare nel caos ogni ideale. Con il termine Bellezza non voglio alludere naturalmente solo a quella esteriore delle forme, facendone dunque una pura questione estetica. Mi riferisco piuttosto a quella che riesce a far convergere in sé l’armonia dell’esterno e la ricchezza interiore di valori e concetti.
Ma in un’epoca dove il Bello è spesso inghiottito dal grottesco e da una visione che si mantiene in superficie, dove inoltre il Brutto e il Male si esplicano attraverso forme ogni giorno nuove, è ancora possibile parlare di Bellezza?
Carlo Verdone, in un’intervista rilasciata poco più di un anno fa, parla di un voyeurismo coatto dove l’immagine stessa è intimamente coatta, di una volgarità trasversale che uniforma tutto e non genera più scandalo. Per l’attore potrebbero salvarci solo “i sacerdoti del bello, coloro che inseguono, e magari insegnano, non solo la bellezza estetica ma anche quella filosofica, morale e virtuosa”. Verdone apre così il dibattito su una duplice questione: da un lato l’assenza di Bellezza, dall’altro la necessità di persone che, essendo avvezze a riconoscerla, riescano ad educare anche gli altri ad un ideale così alto. Io aggiungerei una terza variabile: l’importanza di perseguire la Bellezza, in ogni sua forma.
Il nodo centrale del problema sta nel riappropriarsi degli strumenti di fruizione del Bello, dal quale ci si allontana per diversi motivi, consapevolmente o meno. Il primo è una forma radicata di ignoranza conoscitiva ed emozionale: rifiutando la conoscenza, rifiutiamo di conoscere anche la Bellezza. C’è poi l’aberrazione della Bellezza, quella distorsione cognitiva che induce a considerare belle cose che in realtà sono artificiose, vacue, grette. A questi si aggiunge l’assenza di opportuni strumenti culturali. Nella società dell’informazione corposa e copiosa, è difficile educarsi e rieducarsi al bello se ci viene riversato addosso di tutto.
In questa esondazione di “grande bruttezza” esiste qualcosa che può veramente salvarci? Sì, coltivare la sensibilità. Chi può rifiutare la conoscenza e la bellezza? Chi può avere delle cose una visione così distorta da considerare bello il grottesco? Chi ama crogiolarsi in prospettive avvilenti? La persona che non è dotata di sensibilità, di quella che attinge direttamente al nostro bagaglio spirituale, fatta di intelligenza e di una ricettività tale che il desiderio di evoluzione e di elevazione vengono avvertiti costantemente. Bene, questa sensibilità potrà pure annebbiarsi, avere cedimenti, provocare sofferenze e dubbi, ma penso sia una delle pochissime cose che possa ancorarci al Bello e alla possibilità di viverlo. Coltivare dunque la sensibilità, ed educare a farlo, significa riabilitarsi e riabilitare a riconoscere la Bellezza. Solo così si imparerà ad esigerla, a reclamarla per poi guardarla, osservarla, contemplarla e, finalmente, vederla in tutta la sua intima essenza.