Ho visto di recente l’ultimo film di Paolo Genovese, “Perfetti sconosciuti”, una commedia brillante, aggiungerei riuscitissima. Una frase tra tutte, pronunciata da uno dei protagonisti, mi è rimasta impressa: “Siamo tutti frangibili“. Sì, ci possiamo rompere, in mille pezzi, da un momento all’altro. Siamo simili a cristalli di Boemia, soffiati in forme curiose che ci rendono straordinariamente affascinanti, eppure può bastare poco a che ci riduciamo in frammenti inservibili. Fragili: lo siamo noi, e lo sono i rapporti umani che a volte finiscono, dopo averci plasmati, cambiati, a volte annichiliti. In tutto ciò quanto conta la visione che ognuno di noi ha delle cose?
Pirandello diceva «Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me, mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci, non c’intendiamo mai!». E allora fino a che punto la mia verità può essere la verità dell’altro? Dal momento che siamo destinati a non capirci, forse è preferibile stare zitti?
No, il mio non è un inno al silenzio, che pur ha una sua valenza, ma un invito a prendere atto che due identità che s’incontrano in una relazione non sono state progettate per l’incastro perfetto e che sono portatrici di due vissuti diversi, spesso antitetici. L’idea che l’altro debba essere “come noi vogliamo”, debba pensare “come noi pensiamo”, e che in qualche modo possiamo possederlo, è quanto di più slegato possa esserci dalla realtà. E dà adito ad incomprensioni, recriminazioni, frustrazioni, fino ad arrivare al temuto fantasma dell’incomunicabilità, alla chiusura definitiva. Assumere la nostra verità come unico e imprescindibile parametro di riferimento ci pregiudica dunque la reale comprensione dell’altro.
Il pensarsi, e volersi, forti a tutti i costi è frutto di una modalità educativa disfunzionale che insegna a nascondere le debolezze, a perseguire l’ideale di quella rocciosa infallibilità che ci renderebbe automaticamente dei vincenti. Dovremmo accettare invece che siamo fragili, e che quindi possiamo sbagliare, fallire, senza per questo aver paura di mostrarlo. A tal proposito, ne “L’uomo di vetro” lo psichiatra Vittorino Andreoli dice una cosa bellissima: «La fragilità rifà l’uomo». Ma come può una caratteristica che fa pensare subito alla debolezza, contribuire addirittura alla ricostruzione dell’uomo? La risposta è nell’altra faccia della fragilità, quella dove s’annida la traccia più sincera della condizione umana. La fragilità rivela infatti tutta la sua forza quando ci fa prendere coscienza dei nostri limiti. Alla luce di questa nuova autoconsapevolezza, potremo affacciarci sul nostro mondo e su quello di chi ci sta accanto con occhi comprensivi e non giudicanti: la sua verità non sarà più un affronto alla nostra, ma il suo inevitabile, auspicabile completamento.