A parte l’uscita degli USA di Trump dal trattato nucleare con l’Iran (Iran Nuclear Agreement Review Act,) originariamente siglato da Obama, che ha creato negli ultimi tempi parecchie tensioni tra Washington e Teheran, si è aggiunto recentemente l’attacco alle raffinerie saudite da parte di droni che sia l’Arabia Saudita che gli USA hanno dichiarato essere di origine iraniana invece di esser stato lanciato dagli Houthi yemeniti.
L’Iran ha negato tutto questo ed invece sta cercando di avviare una politica di distensione nel Medio Oriente attraverso accordi che vanno sotto la denominazione di Coalizione per la Speranza. L’Iran di Rouhani si è dichiarato contrario a fare una prima mossa verso un’eventuale conflitto, le cui conseguenze potrebbero essere devastanti.
Discute di tutto questo con YOUng Luciana Borsatti, ex-corrispondente per l’ANSA ed autrice del volume “L’Iran al tempo di Trump” (Castelvecchi Editore).
Quali commenti hai da fare sul recente attacco di missili e droni alle raffinerie in Arabia Saudita?
Semplicemente che ad oggi nessuno può dire con certezza da dove siano arrivati- Di certo vi è soltanto che gli Houthi, i ribelli yemeniti contro cui la coalizione militare a guida saudita combatte da quattro anni senza risultati, li hanno rivendicati. E che le accuse rivolte invece all’Iran da Washington e Riad, secondo cui gli attacchi sarebbero giunti non dallo Yemen ma dal nord per mano dell’Iran, non sono ancora state comprovate da una documentazione sufficiente. In compenso, l’attacco è riuscito ad alzare nuovamente la tensione nel Golfo e a far temere un’escalation militare in risposta al presunto ruolo di
Teheran, ricreando un clima simile a quello di altre simili crisi in questi ultimi mesi. E ha anche spinto la Casa Bianca a varare nuove sanzioni contro la Banca Centrale di Teheran, stavolta anche con l’intento di evitare che un possibile presidente democratico in futuro le possa revocare. Sanzioni che tuttavia peseranno poco sugli orientamenti della classe dirigente, abituata a conviverci da 40 anni, ma destinate a gravare su una popolazione già
fortemente colpita dalla campagna di “massima pressione” USA, in termini di occupazione e potere d’acquisto, limitando anche ulteriormente le forniture dall’estero di beni umanitari.
Quali sono a questo punto le possibilità di un conflitto militare USA-Iran?
Nessuna delle due parti lo vuole, anche se puntualmente lo evoca come arma di pressione: Trump alterna aperture e inviti al negoziato con minacce di ritorsioni militari, Teheran risponde con uguali aperture ma solo a patto che Washington torni al rispetto dell’accordo sul nucleare abbandonato da Trump. E con pesanti e realistici avvertimenti sul rischio che, in caso di attacco, l’Iran sarebbe in grado di colpire dovunque – grazie anche alla sua rete di alleati nella regione, da Hezbollah a Hamas agli stessi Houthi – e dunque di estendere il conflitto in tutta la regione. Entrambi i contendenti lo sanno, che un nuovo conflitto in Medio Oriente sarebbe esteso e fuori controllo, e pregiudicherebbe la rielezione di Trump alla Casa Bianca. Senza contare che anche l’alleanza filo-statunitense nel Golfo si sta sfilacciando: è qualche mese che gli Emirati Arabi Uniti si distanziano dalla linea dura saudita, sia nella questione yemenita che in quella dell’Iran, a cui facevano capo molti uomini d’affari ora in ritirata da Dubai per effetto delle sanzioni. E la stessa Arabia Saudita è consapevole della propria fragilità: non solo in pochi minuti ha perso un vero patrimonio in termini di entrate dal petrolio, causa l’attacco militare ai suoi impianti; anche la lunga guerra yemenita, una sorta di Vietnam nel suo ‘cortile di casa’, dimostra come anche il più ricco e sofisticato arsenale, quale quello fornito a Riad dagli USA ed altri paesi occidentali, non sia sufficiente a vincere un conflitto.
L’uscita del falco John Bolton dall’amministrazione Trump rende forse le cose relativamente più distese?
Certamente sì, è questo il vero punto di svolta delle ultime settimane. Il nuovo consigliere militare Robert O’Brien, un negoziatore per il rilascio di ostaggi americani, sembra essere l’uomo giusto per aiutare Trump a risolvere la questione iraniana per la quale la linea dura dei falchi si è rivelata inefficace. La politica di massima pressione sul piano economico ed il gioco al rialzo di tensioni potenzialmente capaci di sfociare in una guerra non hanno piegato la Repubblica Islamica, abituata da decenni a convivere con le sanzioni, e le difficoltà della popolazione non si sono tradotte in movimenti rivoluzionari. Ma per Trump si avvicinano nuove elezioni presidenziali, che non si può permettere di affrontare con le partite dell’Iran e della Corea del Nord tuttora aperte, né tanto meno con una nuova guerra in Medio Oriente. Lo sbocco non può dunque che essere quello di un nuovo accordo con Teheran, anche se la Guida suprema Ali Khamenei ha bocciato di recente l’ipotesi di nuovi negoziati con gli USA.
Cosa dire del presunto incontro di fine settembre alle Nazioni Unite tra Trump e Rouhani?
Considerata anche la nuova crisi nata dagli attacchi agli impianti petroliferi sauditi, è da escludersi qualunque contatto diretto tra i due presidenti a New York. Ciò non toglie che possano esservi movimenti dietro le quinte, che coinvolgano la delegazione iraniana e pongano le basi per un possibile accordo in futuro. Ma tale accordo non potrà che poggiare sulla garanzia di un ripristino delle entrate economiche perdute dall’Iran in seguito al ritiro degli USA dall’accordo sul nucleare. E’ questo il nodo che l’Europa non è riuscita ancora a sciogliere e su cui sta lavorando il presidente francese Macron, con il quale è emersa la possibilità di una linea di credito dell’Europa a favore di Teheran da 15 miliardi di dollari, più o meno l’equivalente delle mancate vendite di petrolio iraniano. Prima di partire per l’Assemblea Generale dell’Onu, Rouhani ha annunciato che presenterà un piano per una Coalizione per la Speranza capace di far calare le tensioni in Medio Oriente e stabilizzare la regione. Non è la prima volta che l’Iran presenta in quel consesso un progetto di pace e collaborazione internazionale, come già accaduto sia con lui che con l’ex presidente Mohammad Khatami, ma tali proposte sono sempre cadute nel vuoto. Al di là del seguito che questa proposta potrebbe avere, comunque, il messaggio che viene dall’Iran è chiaro: non vogliamo una guerra e siamo pronti a discutere su quali siano le migliori condizioni per una stabilità regionale. Un messaggio di conciliazione ma non di resa. E’ dunque prevedibile che il gioco delle parti sia destinato a durare ancora a lungo.