La riforma del Titolo V, approvata nel 2001 in zona Cesarini dal governo di centro-sinistra con pochi voti di scarto e successivamente confermata dal relativo referendum costituzionale, introduceva all’articolo 116 terzo comma della Carta la possibilità, per le regioni, di richiedere “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” sulla base di un accordo fra lo Stato e la regione interessata. Tale articolo, che circoscrive le materie e le relative competenze coinvolte nella richiesta di autonomia, è rimasto lettera morta per molti anni nonostante, sin dal 2007, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna abbiano esercitato una pressione politica sul governo centrale al fine d’iniziare una discussione concreta sulle nuove possibilità offerte dalla Costituzione. Il 28 febbraio 2018 si è verificata una svolta epocale: negli ultimi giorni della legislatura il governo Gentiloni ha stipulato tre accordi preliminari con queste regioni al fine di avviare l’iter per porre in essere la norma costituzionale.
Come puntualmente accaduto per ogni questione relativa ad un ipotetico – e mai realizzato – federalismo o riferita, come in questo caso, a forme più blande di decentramento o di autonomia, la discussione è presto degenerata, annegando nell’abituale oceano di qualunquismo e di rivendicazioni identitarie che spesso rasentano il ridicolo. Si è messa in moto, infatti, una rumorosa macchina da guerra – ben nota, in verità – formata da giuristi, intellettuali e politici che già paventano l’avvio di un “processo disgregativo”, la “secessione dei ricchi” e il venire meno dei valori di “eguaglianza, libertà, partecipazione democratica” sanciti nella Costituzione. È opportuno, dunque, chiarire alcuni punti.
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Non sono stati il federalismo, né il decentramento, né sarà l’autonomia differenziata a innescare o ampliare le diseguaglianze tra Nord e Sud. Questo baratro è stato creato e ulteriormente scavato in profondità da più di settant’anni di ostinato e dannoso centralismo, solo apparentemente superato da un ipocrita regionalismo partito con trent’anni di ritardo. Il “processo disgregativo” che tanto preoccupa taluni accademici è iniziato con la tardiva creazione, negli Settanta, di regioni i cui confini vennero tracciati sulla base di precisi desiderata politici. Queste regioni improvvisate, lungi dall’essere uno strumento per il miglioramento dell’efficienza socio-economica dello Stato, ne sono state solo la brutta copia in dimensione ridotta, replicando spesso i suoi molti vizi e le sue poche virtù. Questa disgregazione, morale ancor prima che economica, è potuta proseguire indisturbata grazie alla copertura intellettuale di coloro che si nascondono dietro il mantra della “omogeneità”, della “eguaglianza”, della “solidarietà nazionale”.
Si fatica – o più probabilmente, non si vuole – comprendere che federalismo e autonomia si fondano proprio sul riconoscimento e la valorizzazione delle diversità e delle differenze. Il federalismo è una scuola di pensiero che tende alla ricerca continua di mediazione tra l’individuo e la collettività, tra diversità e unità. Si tratta, come scrive Carlo Moos, professore emerito di Storia contemporanea presso l’Università di Zurigo, di «ricerca di unità nella molteplicità». È infantile, ma soprattutto è in malafede, chi si rifiuta di riconoscere una realtà che è sempre stata nel codice genetico dell’Italia: il nostro è un Paese storicamente e spontaneamente federale, che affonda le sue radici nella fulgida età dei comuni che ancora oggi rappresentano le istituzioni alle quali i cittadini si sentono più intimamente legati. Ennio Flaiano scrive che l’Italia «è una confederazione di individui», tale è il suo mosaico di tradizioni, culture, dialetti e modus vivendi.
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Come codificare tale mosaico in un ordinamento costituzionale efficiente rimane, tuttora, un rebus insoluto. La riforma del Titolo V del 2001 è stata una delle peggiori pagine legislative della storia repubblicana e l’ennesimo sfregio all’idea di una vera e seria riforma federale per l’Italia. La necessità di una seconda Camera riservata alla rappresentanza dei territori è solo una delle tante, gravi lacune della nostra architettura istituzionale. Tuttavia, l’articolo 116 comma tre può essere un’occasione per innescare una nuova fase: una presa di coscienza sulle inevitabili differenze del Paese, senza scadere nel melodramma, bensì lasciando che Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna possano fare da apri pista e diventare un modello anche per le regioni del Sud. Di certo non giovano le sceneggiate di Luigi De Magistris, che prima annuncia un referendum “per la totale autonomia della Città di Napoli” – non si sa bene sulla base di quale articolo della Costituzione – e poi invia l’abituale, umiliante missiva al Presidente del Consiglio per cercare una soluzione al disavanzo comunale di oltre 1,7 miliardi di euro.
(foto copertina by Ansa/Daniel Dal Zennaro)
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