Corpo e psiche, il cui legame è ormai supportato da numerose evidenze scientifiche, subiscono un crollo più o meno netto all’insorgere della malattia. Il carico si fa ancora più gravoso quando si ha una conoscenza sommaria o scorretta delle diverse patologie. Se poi il confronto con i medici è inficiato da un rapporto distaccato e da una comunicazione eccessivamente scientifica, il malato va incontro ad una strada tutta in salita, fatta di ansia, timori, dubbi irrisolti.
[citazione cit=”Se il medico non fa altro che tastarmi il polso e considerarmi uno dei suoi tanti pazienti, prescrivendomi freddamente ciò che devo fare, io sono un suo cliente. Se invece si preoccupa per la mia salute, mi ascolta e mi assiste con cura, allora sono in debito con lui, come medico e come amico” fonte=”Seneca, De Beneficiis”]
La paura per il proprio stato di salute, l’onere delle cure, per la persona coinvolta e per chi assiste, le relazioni che subiscono inevitabili cambiamenti, l’incomprensione che spesso viene da chi non vive la cosa in prima persona. Il dialogo, il confronto, la scrittura riflessiva in questo caso servono a tanto: il malato può così dare direttive sul come farsi curare al meglio.
Nasce così la medicina narrativa (o “Narrative Based Medicine”), grazie alla quale la storia del paziente e della sua malattia non è meramente clinica, ma si trasforma in qualcosa capace di coinvolgere il vissuto più intimo per poi estrinsecarsi nel racconto, in una relazione costante di ascolto attivo e fiducia tra medico e paziente.
Ma come avviene la narrazione? Attraverso il colloquio condotto con competenze narrative, la scrittura riflessiva e le interviste semi-strutturate: condizione imprescindibile per cercare di ottenere un risultato concreto è la condizione di agio e libertà in cui deve sentirsi il malato.
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Per capire meglio il tutto, abbiamo intervistato il dottor Jakob Panzeri, medico chirurgo e poeta.
Jakob ha 27 anni e si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 2017 presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca, con una tesi in Oncologia medica presso l’Ospedale San Gerardo di Monza. Jakob collabora con “Italia Unita per la Scienza”, un gruppo di appassionati di scienza che si occupa di divulgazione e comunicazione scientifica e con l’associazione “Poeti fuori strada” che promuove laboratori di poesia presso scuole, carceri e ospedali.
L’INTERVISTA
Lei è molto giovane. In quale momento della sua vita ha deciso di diventare medico?
Da bambino, volevo fare l’ingegnere e costruire i ponti, per unire le persone. Poi mi sono innamorato dell’arte e della poesia. Stavo per iscrivermi a filosofia. Ma un evento inatteso ha cambiato la mia vita: la malattia di una persona cara. Sono entrato per la prima volta in ospedale e mi sono trovato faccia a faccia con la malattia. In quel momento, qualcosa è cambiato. Per la prima volta, ho desiderato diventare un medico. Dopo l’esame di maturità, ho letto “La peste” di Albert Camus. Un libro che mi ha tenuto con il fiato sospeso fino all’ultima pagina. Un libro che ha aperto i miei occhi e il mio cuore e mi ha spronato a seguire il sogno di diventare medico.
Adesso è finalmente un medico. Crede di aver fatto la scelta giusta?
In questi sei anni di medicina ho avuto l’opportunità di contemplare la bellezza della vita dal primo vagito all’ultimo respiro. I miei pazienti si sono fidati di me, nonostante la divisa da studente e la giovane età. Mi hanno confidato le loro paure e le loro speranze. Ho ascoltato le loro storie e a volte ho asciugato qualche lacrima. Non è stato facile, ma ho imparato tanto, professionalmente e umanamente. Ho capito che non bisogna sottovalutare nessun sintomo, che davanti al dolore non esistono parole, ma la presenza di qualcuno che condivida la sofferenza è un aiuto prezioso. Ho capito che io non ho nessun diritto a vedere ostacoli insormontabili nelle mie piccole difficoltà quotidiane, quando c’è chi affronta un problema vero come un cancro o una leucemia. Non ci amiamo e non ci rispettiamo quando non ci impegniamo al massimo per rincorrere i nostri sogni o ci trinceriamo dietro alle scuse. Sono stati sei anni tosti, ma ne è valsa davvero la pena.
Che cosa è la medicina narrativa?
Il concetto di medicina narrativa è abbastanza recente: è nato negli anni Novanta grazie a Rachel Naomi Remen e Rita Charon. Lo scopo è affrontare la malattia in un quadro complessivo, empatico, più ampio e rispettoso possibile della persona assistita. Grazie all’associazione “Poeti fuori strada” ho avuto l’opportunità di seguire da vicino un loro laboratorio di poesia presso una residenza sanitaria per anziani. Gli ospiti del centro attendevano con trepidazione, ogni giovedì, l’arrivo dei poeti. Grazie alla poesia, si sono messi in gioco, raccontando la propria storia, le proprie speranze e le proprie paure, e qualcuno ha trovato la forza di reagire alla malattia.
Perché crede così tanto in questo progetto?
Perché un malato non è la sua malattia. Un malato non è una cosa o un caso. Un malato è prima di tutto una Persona, con i suoi sentimenti, con le sue idee e la sua storia. E nessuna malattia potrà mai togliere a un uomo, a una donna, la sua dignità. Ogni medico dovrebbe sempre ricordarsi che dietro un sintomo, c’è sempre una Persona.
Alla luce di un sistema sanitario pieno di lacune e non di rado in affanno, secondo lei quali benefici potrebbe apportare la medicina narrativa?
È vero che la sanità italiana ha tanti problemi, ma prima di tutto vorrei dire una cosa. Sono orgoglioso di vivere in un paese dotato di una sanità pubblica. Continui tagli e privatizzazioni hanno indebolito il Servizio Sanitario Nazionale, ma la sanità deve restare un bene pubblico, permettendo ai cittadini il diritto di essere curati nella maniera migliore: occorre assumere nuovi medici e infermieri, ridurre le liste d’attesa, mettere la Persona al centro di ogni scelta.
I nostri nonni non conoscevano disinfettanti, antibiotici, anestetici. Un tempo si moriva per una banale infezione. Nel corso di pochi decenni, la medicina ha fatto passi da gigante. Grazie alla scoperta del DNA e all’avvento della farmacogenomica, possiamo creare una terapia personalizzata per ogni paziente. Ma ai progressi della tecnica e alle scoperte di nuovi farmaci, non ha fatto seguito un altro fattore decisivo nella cura: la comprensione della sofferenza. Paradossalmente il rapporto medico-paziente è andato sempre più a deteriorarsi. Dobbiamo trovare il modo di ristabilire l’alleanza terapeutica, creando un clima reciproco di empatia e di fiducia tra medico e paziente.
E attualmente in cosa è impegnato?
In questo periodo sto lavorando presso il servizio di Continuità Assistenza (guardia medica) e come sostituto in un ambulatorio di Medicina Generale. Credo che il medico di medicina generale sia una figura estremamente preziosa. Non si tratta di un semplice compilatore di ricette: è il primo a venire in contatto con il paziente, ad ascoltare le sue parole, ad indirizzarlo verso il percorso di prevenzione, diagnosi e cura più adatto. È il custode della nostra salute.
[sostieni]
Per chi volesse ulteriormente approfondire, ecco le “Linee di indirizzo per l’utilizzo della medicina narrativa in ambito clinico-assistenziale, per le malattie rare e cronico-degenerative”.
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