Solo qualche settimana fa, su queste pagine, avevo scritto della necessità di superare l’approccio centralista che, sino dall’unificazione dell’Italia, danneggia e penalizza le preziose diversità del nostro Paese. Parole che, forse, ai più possono sembrare troppo retoriche. Ecco, dunque, che giunge in aiuto il governo, che mi fornisce un argomento senz’altro più pragmatico e concreto per convincere i lettori della bontà delle mie affermazioni. Il cosiddetto “decreto crescita”, approvato in pompa magna giovedì 4 aprile del Consiglio dei Ministri, ha portato in dote – tra le pieghe del provvedimento, come spesso accade – un prelibato uovo di Pasqua anticipato per gli italiani. La nuova norma, infatti, prevede che sia lo Stato a farsi carico di gran parte dell’enorme debito accumulato dal comune di Roma, che ammonta a più di 12 miliardi di euro. In altre parole, saranno i portafogli degli Italiani a pagare i debiti capitolini. L’operazione è stata salutata come un grande risultato da parte di Virginia Raggi e dal ministro Tria: molto meno dai sindaci degli altri comuni italiani che ormai da molto tempo si barcamenano tra pesanti tagli e la necessità di mantenere in ordine i bilanci senza ricorrere all’indebitamento irresponsabile.
Provare a ricostruire la storia del debito della capitale rischia di essere un’indagine proibitiva anche per segugi infallibili come il commissario Montalbano o Rocco Schiavone: ma tentiamo, almeno, a ricostruirne brevemente le tappe. Virginia Raggi, sicuramente, non ha colpe né maggiori né minori di chi l’ha preceduta; semplicemente, l’inefficienza e gli sprechi hanno ormai talmente contaminato Roma da diventarne parte del codice genetico.
Si pensi che il 4 aprile del 2016 Silvia Scozzese, allora commissario straordinario del governo Renzi, nel corso di un’audizioni alla Commissione Bilancio della Camera, dichiarò: “Né i piani di rientro del debito di Roma Capitale finora redatti, né il documento di accertamento definitivo del debito sembrano contenere una ricognizione analitica e una rappresentazione esaustiva della situazione finanziaria da risanare antecedente al 2008. Attualmente, per il 43% delle posizioni presenti nel sistema informatico del Comune non è stato individuato direttamente il soggetto creditore”. In sostanza, ciò significa che non è possibile neppure individuare correttamente l’identità dei creditori.
L’inizio dell’indebitamento romano risale al lontano 1960, anno in cui la capitale ospita le Olimpiadi: le casse comunali piangono, e quindi lo Stato interviene per costruire le necessarie infrastrutture e alcuni impianti. Da allora la fiction diventa ripetitiva e vi si alternano personaggi di ogni colore politico – da Glauco Della Porta a Clelio Darida, da Francesco Rutelli a Gianni Alemanno passando per Walter Veltroni – ma il comune denominatore non cambia: il debito di Roma continua ad aumentare sino ad andare fuori controllo. Qualche scuola economica sostiene che debito non sia, di per sé, un male: un po’ di debito, si afferma spesso, fa bene per rilanciare l’economia. Il problema è che nella capitale la maggior parte di questa mole di denaro che è andata via via aumentando non è stata usata, ad esempio, per migliorare i servizi e, più in generale, modernizzare una delle più belle città del mondo. Al contrario, i romani hanno potuto osservare una progressiva decadenza della propria città e della qualità della vita. Quotidiani disagi, inefficienza nella gestione dei rifiuti, quartieri della città che vivono una situazione di degrado e di abbandono, e quella costante sensazione, strisciante e viscida, che ogni volta per fare qualcosa di concreto nella capitale ci siano tante, troppe tasche da accontentare.
Un sistema che ha fatto comodo ad ogni amministrazione che si è alternata, e che poggia su una regola non scritta però tanto chiara quanto ipocrita: Roma è la capitale, dunque è too big to fail, troppo grande e importante per essere lasciata alla bancarotta. Esattamente il contrario di ciò che avviene in un sistema federale, dove i governi locali hanno una larga autonomia di entrata e di spesa che responsabilizza gli amministratori e li costringe, di fatto, a rispondere delle proprie azioni davanti ai cittadini. La verità è che questo Paese è allergico al federalismo non perché collimante con qualche principio ideologico ma perché sarebbe l’arma finale per eliminare le tante sacche clientelari e parassitarie che da Nord a Sud si annidano nei gangli amministrativi del Paese.
E dunque, apriamo i portafogli e prepariamoci, ancora una volta, a pagare i debiti di una, cento, mille Roma.
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