Ai tempi del Vaffa Day, il Movimento 5 stelle – il non-partito regolato dal non-statuto – era solito fare della sovranità popolare e della democrazia diretta i propri cavalli di battaglia. La piattaforma Rousseau è nata proprio per dare corpo a quell’idea di e-democracy che aveva sedotto molti elettori, convinti così di poter intervenire in maniera concreta nel processo decisionale e di esercitare un controllo costante sull’operato degli esecutivi. Sembravano concretizzarsi non solo quell’utopico slogan uno vale uno che aveva costruito le fortune del Movimento, ma anche la possibilità di iniettare dosi massicce di democrazia diretta nei sistemi costituzionali mediante l’utilizzo del web. Tuttavia, come accade spesso in politica, si è rivoluzionari fuori dai palazzi ma una volta accomodati su di uno scranno parlamentare o su di una comoda poltrona ministeriale, ecco che improvvisamente si scopre il pragmatismo del potere.
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Si è verificata un’altra, forse decisiva tappa verso una completa istituzionalizzazione del Movimento 5 Stelle, iniziata con il sorprendente consenso ottenuto alle elezioni politiche nel 2013 sino alla separazione consensuale del blog di Grillo dal sito istituzionale del Movimento. Eppure molti analisti che sono rimasti sorpresi dal Truman show messo in piedi su Rousseau in merito alla nave Diciotti dovrebbero ricordare che non siamo di fronte ad un inedito. Nel 2012, infatti, dal 3 al 6 dicembre si svolsero le “parlamentarie”: sul sito del Movimento gli iscritti poterono votare fra 1400 candidati per scegliere i propri futuri parlamentari. Cinque anni dopo, le stesse “parlamentarie” traslocarono su Rousseau: e già allora le “primarie a 5 Stelle” non furono esattamente un bagno di democrazia. Al contrario, qualche “manina” intervenne per correggere alcune scelte degli iscritti, e depennare alcuni candidati considerati “sopra le righe” che avrebbero rischiato di mettere in imbarazzo i vertici del Movimento. Curioso, quasi comico, che «il turpiloquio nei confronti degli avversari politici a mezzo social» venne considerato uno dei motivi di tali esclusioni. Già con questo intervento dirigistico era possibile cogliere la “mutazione genetica” in corso fra i grillini, che stavano contestualmente abbandonando i toni barricadieri degli esordi per un più approccio più mite affidato alla figura “pulita” di Luigi Di Maio.
Il problema, però, è che i militanti della prima ora stanno iniziando a vedere il bluff. La votazione-farsa su Rousseau è stata la pietra tombale sull’uno vale uno. Ma non solo: la formulazione quanto meno bizzarra del quesito sembrava il parto di qualche raffinato linguista democristiano della Prima Repubblica, così abile a mettere in fila parole e punteggiatura tra il dire e il non dire, e a dribblare il vero punto della questione. Sono lontanissimi i tempi in cui Grillo, nel corso di un comizio a Novara, affermava: «Dobbiamo fare un processo pubblico ai partiti con una giuria di cittadini scelti a sorte, perché devono ridare tutto quello che hanno rubato e poi vedremo che lavoro socialmente utile fargli fare». E ancora, qualche anno dopo, ribadiva a Porta a Porta il «diritto allo sputo digitale» da far valere in un «processo online» a politici, imprenditori e giornalisti. Avevano promesso una «piccola Norimberga», si sono ritrovati a mettere in scena uno dei passi più celebri del Vangelo, quello di Gesù e Barabba, con Luigi Di Maio eccezionalmente nelle vesti di Ponzio Pilato. La Rete che doveva essere giuria, giudice e boia è stata, invece, riverente testimone impegnata a certificare la volontà della classe dirigente: dallo sputo digitale all’inchino analogico il passo è stato breve.
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Più che ad un esperimento di democrazia diretta à la Rousseau, è sembrato di assistere ad un momento di bonapartismo, nei quali la solenne volontà popolare si codificava nella riverente ritualità collettiva dei plebisciti. Questi servivano solo a dare una parvenza di legittimità popolare – o meglio, di ratifica – a talune volontà di Napoleone. Ed è proprio a questo che serve, ora, la piattaforma Rousseau: a gestire il rapporto plebiscitario tra il potere politico a 5 stelle e i propri follower, o meglio iscritti. Il Movimento sta già pagando questa negazione delle proprie origini: prima la sconfitta alle regionali in Abruzzo, poi la disfatta in Sardegna e una media nazionale nei sondaggi che sta inesorabilmente calando. Alessandro Di Battista, che doveva essere il “jolly” con il quale sfidare l’avanzata della Lega, è stato frettolosamente rimesso in soffitta. Il Movimento dovrà pensare a qualcos’altro, se non vorrà continuare a vedere le stelle cadenti.
(Foto AP-Lapresse)