«Sarò diversamente berlusconiano».
Erano gli ultimi giorni di settembre di un ormai lontano 2013, e andava avvicinandosi la fine del Popolo della Libertà. Lo strappo di Berlusconi dal governo Letta sanciva una frattura anche all’interno del partito. Angelino Alfano, il delfino mai amato, si apprestava a marcare le distanze e a consumare il parricidio con una frase a metà tra la battuta e l’annuncio solenne. Da quel giorno l’avverbio «diversamente» è entrato nel vocabolario della politica italiana con un peso specifico e una malizia propri. In queste prime settimane del 2019, può essere utile per descrivere la situazione di Carige, una banca diversamente salvata. Il governo del cambiamento, infatti, sente rumorosamente stridere le unghie sugli specchi mentre tenta di marcare la propria differenza da chi lo ha preceduto. E vede tornare indietro come un boomerang lo storytelling contro la finanza e contro le banche che tanto successo aveva garantito quando proveniva dai comodi banchi dell’opposizione.
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Sembra passata una vita da quando Alessandro Di Battista tuonava: «Salvate le banche e non salvate i migranti!», e ancora «I quattrini per le banche d’affari, per le banche private […] li trovano in 18 minuti, il tempo di un prelievo al bancomat. Solo che il bancomat sono i denari pubblici, le tasse di tutti i cittadini italiani!». Sarà molto deluso, Di Battista, nell’aver appreso che il decreto salva-Carige ricalca quello della precedente legislatura riservato a Monte dei Paschi e alle banche venete. Come spiegato in dettaglio dall’economista Mario Seminerio, vale la pena precisare che i commissari di Carige hanno già fatto sapere che emetteranno bond sfruttando la garanzia pubblica, esattamente come fatto da MPS nel corso del 2017. I peones grillini si affannano a dimostrare che no, “non è la stessa cosa”; Di Maio scorge all’orizzonte un sol dell’avvenire che vede albeggiare la nazionalizzazione di Carige e la prima “banca del popolo”; la macchina della propaganda lavora a pieno regime per fare in modo che lo sguardo volga sul dito e non sulla Luna.
La Luna, in questo caso, non è fare le pulci ai decreti per vedere se cambia una virgola o una parola, né giocare ai rivoluzionari del quartierino. Bensì prendere atto che banca Carige è, in tutto e per tutto, l’ennesimo ganglio di quel subdolo capitalismo di relazione imperniato sulle viscide “banche del territorio” dove le dinamiche del potere assomigliano molto a quelle medievali. Carige, Monte dei Paschi, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Etruria: cambiano i protagonisti ma la trama è sempre la stessa. La “banca del territorio” è spesso null’altro che il feudo personale di un reuccio locale e della sua corte, ben protetto e riverito dai vassalli e valvassori della politica, non di rado arroccato in una fondazione che è anche azionista di maggioranza, retto da due dogmi: l’erogazione familistica e clientelare del credito e la socializzazione delle perdite a fronte della privatizzazione – riservata a pochi – degli utili. Quando il giocattolo si rompe, principi e cortigiani se ne vanno, o tutt’al più vengono estromessi dalla gestione della banca che viene posta in amministrazione straordinaria e commissariata, come accaduto con Carige.
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A questo punto si pongono due questioni piuttosto rilevanti: di responsabilità e di prevedibilità. L’intervento del governo, venduto alla folla come indispensabile per “salvare i risparmiatori”, in verità è un favore ai comitati d’affari, esattamente come lo erano stati gli interventi per Monte dei Paschi e per le banche venete. Senza l’intervento pubblico, infatti, i commissari che seguono le direttive dell’organismo europeo di vigilanza avrebbero potuto applicare alla lettera la relativa direttiva europea BRRD sul bail-in – “Bank Recovery and Resolution Directive”. Questa direttiva, che disciplina le opportune procedure di “fallimento” delle banche, già prevede che non siano lo Stato né i contribuenti a farsi carico del “salvataggio” di un istituto, bensì in prima battuta gli azionisti, a seguire gli obbligazionisti e solo in ultima battuta i correntisti con liquidità maggiore ai 100 mila euro. L’intervento pubblico, invece, serve proprio ad eludere quanto previsto dalla BRRD: così, sarà la collettività a pagare il conto degli azzardi e delle regalie altrui. Nel frattempo sorge la più spontanea delle domande: dov’erano gli organi di vigilanza, considerato che la situazione di Banca Carige era nota da tempo?
Carige non va salvata né diversamente salvata. Le banche si salvino da sole, se ne sono capaci, oppure siano lasciate al loro destino, senza prestiti, ricapitalizzazioni o garanzie statali che sono ormai divenute una prassi malata. È tempo di dare un segnale forte per tagliare una volta per tutte il cordone ombelicale che lega le banche e la politica, e iniziare a pensare ad una seria ristrutturazione del sistema bancario italiano.
(immagine AFP)