Da qualche anno, la politologia è sempre più attratta dalle teorie d’illustri accademici e influenti analisti che intendono ridefinire il significato e le dinamiche della democrazia. Ad esempio Fareed Zakaria – considerato uno dei maggiori specialisti di politica estera – già nel 1997 sosteneva che «le elezioni sono un’importante virtù della governance, ma non la sola […] ciò che di cui si ha bisogno nella politica contemporanea non è di maggiore democrazia, bensì di meno». Ancora, per il professor Philip Pettit di Princeton «mentre la democrazia è certamente riconosciuta come un importante elemento di tutela contro il dominio del governo, questa tuttavia non ha mai rappresentato il pilastro centrale del sistema di governo repubblicano». Queste affermazioni possono essere ricondotte all’interno di quella corrente di pensiero, divenuta sempre più forte, che ritiene necessario “proteggere” le strutture del potere e i processi decisionali dagli input provenienti dall’azione e dalla volontà popolari.
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È la teoria che Peter Burnham ha definito politica della de-politicizzazione, in cui l’autorità decisionale viene trasferita a istituzioni, organi e agenzie sovranazionali non partitiche, composte da tecnici e specialisti indipendenti che stilano norme vincolanti per i governi. Eppure, nonostante l’entusiasmo di Lord Falconer – uno dei più stretti collaboratori di Tony Blair, il quale fu uno dei primi a presentarsi come leader “estraneo alla politica” – che nel 2004 affermava, sicuro, che «la de-politicizzazione del processo decisionale è una tappa obbligata se si vuole avvicinare il potere alle persone», le cose non sono andate nel verso giusto. Forse, nelle aule accademiche e nelle oscure stanze degli spin-doctor sarebbe stato utile proiettare l’episodio numero 22 della decima stagione dei Simpson, dal titolo “Utopia delle utopie”. I personaggi di Matt Groening, infatti, avrebbero potuto dare un’utile quanto profetica lezione di cosa accade quando si ripone troppa fiducia nelle buone intenzioni e nel costruttivismo socio-politico.
Springfield è in subbuglio quando il sindaco Joe Quimby si convince erroneamente che le sue malefatte siano state scoperte, e fugge frettolosamente dalla città. Il vuoto di potere viene colmato dai membri della sezione locale del MENSA – composta dal direttore Skinner, il dottor Hibbert, l’Uomo dei Fumetti, il professor Frink, Lindsey Naegle e la piccola Lisa Simpson – che, sfruttando un cavillo dello statuto cittadino, si insediano come nuova autorità comunale. I governanti, oltremodo preparati e competenti, sono convinti di rappresentare la migliore soluzione possibile: «potremmo trasformare Springfield in un’utopia» afferma Lisa. Il direttore Skinner vede già l’alba di ”una nuova Atene”. D’altronde cosa può esserci, di antropologicamente superiore, di un’istituzione che riunisce l’élite di Springfield? Le sue decisioni non potrebbero mai essere sbagliate. Eppure, i super-intelligenti non si dimostrano all’altezza: prima iniziano a litigare tra loro, facendo a gara tra chi ha il quoziente intellettivo più alto, poi emanano una serie di norme e regolamenti alquanto bizzarri che non vengono compresi dalla folla dei bifolchi e degli ignoranti – come li definisce Lisa all’inizio dell’episodio guardando il fratello Bart cavalcare un maiale. I cittadini di Springfield finiscono col ribellarsi e pongono termine alla breve quanto ingloriosa era del “governo intelligente”, che viene bacchettato anche da Stephen Hawking, guest star dell’episodio.
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In questo episodio c’è tutta la politica contemporanea. C’è la vecchia classe dirigente, corrotta e inaffidabile; ci sono l’arroganza e la spocchia di chi vorrebbe la tecnocrazia al potere – magari l’avvento di una troika – e pensa persino che sia opportuno restringere il suffragio universale secondo non meglio precisati parametri di preparazione e d’intelligenza; c’è l’inevitabile reazione populista verso le provocazioni dei tecnocrati – il direttore Skinner, come un commissario europeo qualunque, si appella alla folla inferocita con queste ingenue parole: «Noi abbiamo un’alta considerazione di voi sottospecie!». Improvvisamente, il problema principale è diventato misurare la competenza e la preparazione dei politici: eppure, Razzi e Scillipoti – solo per citare due fra tanti possibili esempi –, non esattamente due dottori di ricerca, non sono stati portati in parlamento dai “populisti”. Il nodo gordiano, semmai, è come riuscire a far sintonizzare sulla stessa lunghezza d’onda i membri del MENSA e il Paese reale di Homer.
Le teorie che sostengono la necessità di continuare a restringere l’influenza dei cittadini sul processo decisionale contengono la causa stessa dell’emersione dei “populismi”. Maggiore sarà il tentativo, da parte delle élite, di trincerarsi dietro fossati tecnocratici sempre più profondi dove poter comodamente cercare una fallace auto-legittimazione, maggiore sarà la reazione dell’uomo comune e la sua attrazione verso anti-scientismo, complottismo e qualsiasi strumento che gli dia anche solo l’illusione di poter scavalcare quei fossati. La rotta si può ancora invertire: ma smettendo, innanzitutto, di immaginare una politica calata dall’alto e gli elettori come scimmie da rendere edotte, e recuperando il valore delle istituzioni più prossime ai cittadini, anziché continuare a fortificare le torri d’avorio.
*Per le citazioni contenute si veda Peter Mair, Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, Rubbettino, 2016.
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