Nell’interessante volumetto “Diritti per forza”, con apprezzabile onestà intellettuale Gustavo Zagrebelsky affronta il tema dell’effettività dei diritti umani, declinato alla luce delle sfide globali che la contemporaneità lancia agli ordinamenti giuridici dell’Occidente e al diritto internazionale.
L’analisi, condotta dall’insigne Giurista con lucidità e realismo, procede dal riconoscimento esplicito di un dato di fatto: l’enfatica celebrazione dei ‘diritti dell’uomo’ si è arenata al livello di una mera dichiarazione di principio, una vuota formula di stile cui non corrisponde alcuna tutela atta a tradursi in concrete misure di garanzia che andrebbero assicurate ad esistenze travolte da guerra e miseria, poiché per l’essere umano la possibilità di rivendicare condizioni reali di sopravvivenza in sicurezza rappresenta la radice del diritto all’esistenza.
L’effettività della tutela appare in nuce insidiata dall’intrinseca duplice natura dei diritti, che, configurandosi alternativamente come “strumenti di dominio oppure di resistenza contro il predominio”, possono esplicare la propria funzione attraverso un’azione di protezione dalle sopraffazioni o – in senso diametralmente opposto – mediante un’operazione di legittimazione delle ingiustizie.
La contraddizione tra l’astratta proclamazione di diritti (in particolare, i diritti umani) e l’inaccessibile realizzazione di una tutela effettiva dei medesimi – tutela che storicamente è nata e si è sviluppata entro i confini degli Stati nazionali, in stretta connessione con lo status di cittadinanza – produce il paradosso, tutto attuale, dell’esistenza di masse di persone che sono astrattamente titolari di diritti, resi, tuttavia, irrealizzabili dallo sradicamento dei soggetti dai rispettivi Stati di origine e, dunque, destinati a cristallizzarsi in stato d’ineffettività in conseguenza di una situazione socio-politica di saturazione degli spazi tale da precludere agli individui ogni possibilità di approdo in una terra nuova ove affermare i propri diritti di cittadinanza.
La de-territorializzazione di intere masse umane nitidamente osservabile nel corrente momento storico, riattualizza drammaticamente la riflessione di Hannah Arendt sul ‘diritto di avere diritti’ negato al popolo ebraico con la perdita della patria e dello status politico, cui seguiva l’espulsione dall’umanità, come soluzione idonea a garantire senza turbative l’ordine del mondo già organizzato a livello globale.
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In tal senso, sul piano socio-politico, la ‘saturazione degli spazi’ è intesa come obiettiva condizione del pianeta, stretto nella morsa della sovrappopolazione, dello sfruttamento/esaurimento di risorse energetiche e ambientali, della crescente riduzione dell’abitabilità dei territori in conseguenza del cambiamento climatico, in combinazione con la persistenza e l’irrigidimento di barriere politiche e culturali resistenti alla globalizzazione del mondo.
Tale situazione complessiva determina la trasformazione della guerra in fenomeno interno allo spazio globale unico, ingenerando inevitabili ripercussioni sull’equilibrio del pianeta e palesando l’inesorabile obsolescenza del diritto bellico tradizionale, la cui elaborazione nei secoli scorsi era incentrata sul concetto di sovranità.
Poiché, peraltro, all’interno di spazi chiusi la disponibilità di beni, oggetto di diritti, è limitata e non suscettibile di accrescimento, tra gli individui s’instaura di necessità una relazione di concorrenza/rivalità per la titolarità dei beni medesimi; in tal senso la narrazione americana relativa al diritto alla ricerca della felicità – una volta superato il mito della frontiera, considerata suscettibile di espansione virtualmente illimitata verso Ovest – si disvela per ciò che realmente è: un’illusione generatrice di quella che l’Autore definisce ”infelicità diffusiva”.
La società attuale, osservata con sguardo impietoso, è, infatti, ritratta realisticamente nel suo essere dominata da istinti esasperati, che il Giurista individua nella ricchezza di beni (su cui insiste il diritto di proprietà), nel potere sugli uomini (che si manifesta in molteplici forme, tutte purtroppo ben note) e, infine, nella fama (che si esercita sulla psiche collettiva e non è più emancipazione dall’insignificanza di una massa in-fame, bensì accecante desiderio di distinzione e privilegio).
L’ideologia del tempo presente, notoriamente fondata sull’imperativo della crescita e dello sviluppo, si dimostra funzionale al mantenimento dello status quo, in una società dominata da un’ingordigia che ha ormai rivelato appieno il proprio carattere distruttivo: esaurito il tempo dei beni crescenti, durante il quale le differenze sociali erano generalmente accettate per il loro carattere di stimolo alla competizione, l’esclusione dal benessere appare come un’ingiustizia intollerabile perpetrata ai danni di una massa crescente di uomini, mentre l’arroccamento dello strato sociale più ricco è vissuto come un’esigenza di difesa della propria posizione, o del proprio privilegio.
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La stessa riscoperta della categoria dei ‘beni comuni’, che in sé supera la dicotomia beni pubblici-beni privati, esprime diffusa sfiducia tanto negli esiti favorevoli dei sistemi di mercato, quanto nell’azione dello Stato, che in precedenza era considerato soggetto super partes, espressione dell’intera società, ed ora è, invece, ritenuto rappresentativo del solo potere politico che vi si è insediato.
Poiché, dunque, i beni pubblici sono esposti, fino al limite della dissipazione, al pericolo di una gestione interessata, il ricorso alla categoria dei beni comuni, che pur presenta confini incerti e labili, dovrebbe essere funzionale alla tutela di preziosi beni esauribili (quali aria, acqua e mare, terra fertile, cibo, flora, fauna) che andrebbero sottratti sia a privatizzazione, sia a pubblicizzazione.
Su questo fronte, però, l’emersione di ‘stili di vita’ vissuti come valori non negoziabili anche quando appaiono manifestamente incompatibili con l’equilibrio del pianeta, non produce altro effetto che quello di alimentare la conflittualità a livello globale, trattandosi di lifestyles subentrati – pur senza pretese di generalizzazione – alle vecchie ideologie ormai superate, ed assurti al rango di dogmi assoluti.
L’interdipendenza tra le parti dello spazio unico impone, di contro, la preminenza dell’etica del dovere su quella del diritto, per un’evidente ragione di sopravvivenza della società umana: la valorizzazione dei doveri di giustizia verso i propri contemporanei e, nel contempo, dei doveri verso l’umanità da adempiersi nell’interesse della posterità si colloca in un’ottica che privilegia la salvaguardia del contesto nel quale l’individuo agisce, rispetto alla realizzazione degli interessi del singolo qualificati dall’ordinamento giuridico come diritti soggettivi.
In questo senso, la preservazione dell’ambiente racchiude anche la primordiale garanzia di una sfera individuale di libertà di pensiero e d’azione, onde sottrarla alla continua minaccia rappresentata dagli sviluppi della tecnologia che, serializzando in algoritmi i comportamenti umani, ne consentono il condizionamento e la manipolazione.
Tali considerazioni conducono l’Autore all’esaltazione della somma responsabilità morale della generazione presente nell’evitare prevaricazioni intergenerazionali tali da minacciare o impedire la riproduzione della vita attraverso il consumo e la distruzione delle risorse comuni, o da sopprimere la libertà dell’essere umano.
Significativamente il libriccino si chiude con un esplicito riconoscimento: “Il diritto è importante, ma non è una forza indipendente sufficiente a cambiare i rapporti sociali. […] La cosiddetta «funzione promozionale» del diritto, delle sue norme di principio e programmatiche non è nulla se non è sostenuta da dinamiche economiche, politiche e culturali. Quello è il luogo della «lotta per i diritti»”.
Ugualmente, alla scienza giuridica si chiede di affrancarsi dall’astrazione, dall’idealizzazione e dall’aura di sacralità che permea il concetto di diritto, per scorgerne e rivelarne altresì il lato oscuro di strumento di sopraffazione.
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ALCUNE RIFLESSIONI SULLE QUESTIONI APERTE NEL E FUORI DAL LIBRO RISPETTO AI NOSTRI SCENARI LIQUIDI
Sul piano critico, peraltro, alla percezione del lettore avveduto non sfugge come gli squilibri irrisolti e le persistenti diseguaglianze risalenti al mondo pre-globalizzato si sommino alla sostanziale inazione della comunità internazionale sul fronte dell’uso sostenibile e dell’equa distribuzione delle limitate risorse disponibili, cosicché di fatto la perdurante astrattezza che connota la proclamazione dei diritti umani, è da imputarsi all’assenza di progettualità politica condivisa sul piano internazionale: rebus sic stantibus, era impensabile che i diritti ricevessero tutela effettiva in conseguenza della sola dichiarazione formale, la cui esistenza ha l’indubbio pregio di dimostrare efficacemente – ove mai ce ne fosse bisogno – l’inottemperanza dell’Occidente ai suoi stessi proclami giuridici, un’inottemperanza tanto più significativa ove si consideri che siffatti principi, contenuti in trattati internazionali, rispecchiano fondamentalmente norme costituzionali vigenti nei singoli Stati occidentali.
All’assenza di una strategia complessiva preordinata a concretizzare una visione politica di lungo periodo si accompagna la tragica inadeguatezza delle soluzioni adottate, che appaiono estemporanee e disomogenee in quanto frutto d’improvvisazione: ciò spiega perché, nel medesimo Occidente, si assista ove alla chiusura delle frontiere nazionali con l’adozione delle più svariate tecniche di respingimento, ove alla rinuncia ad un’azione di controllo dei flussi migratori, quasi difettasse una reale consapevolezza dei problemi oggettivi di pacifica convivenza ingenerati dalla compresenza di culture diverse nel medesimo territorio.
Sul piano teorico, la questione dell’effettività della tutela dei diritti umani pone, tuttavia, un interrogativo inquietante: se la rivendicazione di diritti presuppone uno spazio e la de-territorializzazione è accettata quale dato di fatto, si accoglie implicitamente l’idea che le masse debbano mettersi ‘alla ricerca di diritti’ (nel tacito presupposto che i medesimi abbiano possibilità di affermazione e soddisfacimento in tanti, ma non in tutti i luoghi del globo) e, quindi che vi siano spazi sottratti alla pervasività del diritto (innanzitutto del diritto internazionale). Inutile rimarcare come l’accoglimento di tale tesi comporti una disfatta ideologica ed etica, ancor prima che pratica.
In riferimento all’universalizzazione dei diritti umani raggiunta con la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo adottata dall’ONU nel 1948, nell’Enciclopedia Treccani alla voce ‘diritti dell’uomo’, nell’approfondimento curato dal Prof. Gaetano Pecora e consultabile a questo link: http://www.treccani.it/enciclopedia/diritti-dell-uomo/, si legge: “almeno teoricamente, gli individui potrebbero chiedere la tutela dei loro diritti non solo dentro lo Stato, ma anche contro lo Stato di appartenenza; non solo cioè fidando sugli organi statali, ma anche ricorrendo contro di essi quando proprio essi calpestino o disattendano i diritti umani. In questo caso, scatterebbe negli individui il diritto di appellarsi a istanze sovrastatali, le quali dovrebbero forzare lo Stato colpevole a recedere dalla sua illegalità. Tutto ciò, però, solo teoricamente. […] A seguito della Dichiarazione del 1948, infatti, non è stato organizzato alcun potere capace di sopraffare le politiche liberticide delle comunità statali.”
Quale coerenza giuridica e politica può rinvenirsi, nell’arco di quasi 70 anni, tra la volontà di garantire la protezione giuridica dell’essere umano mediante una Dichiarazione qualificata espressamente come “ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni” e l’accettazione inerte dell’odierno fenomeno migratorio? Sono davvero le immense masse umane a dover trasmigrare in cerca di diritti, o sono piuttosto i diritti a dover radicarsi là dove gli individui si trovano?
Accolto idealmente l’assunto inerente l’interdipendenza tra le parti dello spazio globale unico, quale battaglia politico-ideologica per l’effettività dei diritti intendiamo intraprendere noi occidentali, se non siamo disposti, e tantomeno pronti, ad affrontare, con tutto il coraggio che l’impresa richiede, neppure il cambiamento interno indispensabile per propugnare realmente l’affermazione dei diritti in tutti i luoghi del mondo?
Questa scelta ci interroga sul piano etico, ancor prima che sul versante giuridico, e sollecita una riflessione, poiché l’affermazione del diritto è storicamente una vicenda di lotte affrontate dai popoli in nome di ideali di libertà e di giustizia. E’ realisticamente possibile un’affermazione inerme del diritto? La potenza delle armi attuali, quelle stesse che l’Occidente commercia con i Paesi coinvolti in conflitti armati o responsabili di violazioni dei diritti umani, ci rende complici dei disastri del mondo e dell’impossibilità dei popoli di lottare per la libertà propria e della propria terra.
La filosofia del diritto (G. Limone ed.), La responsabilità di essere liberi, la libertà di essere responsabili, Milano 2012) ci insegna che la libertà non è solo una condizione – lo stato di ciò che è libero: è anche capacità, è azione che libera, e, come tale, reca in sé la consapevolezza della responsabilità che vi è annessa. Nel momento in cui sceglieremo davvero di privilegiare l’ottica dei doveri, rispetto a quella dei diritti, riconosceremo che ogni uomo ha la responsabilità della propria e dell’altrui libertà, di guadagnarla e di preservarla, e tanto per gli occidentali dediti a commerci mortiferi, quanto per l’umanità che si vuole espulsa dall’ordine globale del mondo, questa responsabilità è ineludibile.
Perciò, riaffermato l’imperativo morale che impone di soccorrere le urgenze della nuda vita delle masse umane migranti, occorre domandarsi se, nella scelta di assecondare hic et nunc la logica delle migrazioni in vista del conseguimento di diritti proclamati urbi et orbi e non ovunque garantiti nella loro effettività, l’Occidente, tragicamente immemore della propria tradizione umanistica, non favorisca sciaguratamente una generale deresponsabilizzazione sui destini del mondo.
Maria Elena Roccia è Dottore di Ricerca (Ph.D.) in Diritto civil-romanistico. Studiosa indipendente, svolge attività di ricerca sul rapporto tra diritto e società, con particolare riferimento allo status della donna nell’antichità romana.
Alcune sue pubblicazioni:
1 – La costruzione giuridica dell’identità materna in Ulp. 38 ad Sab. D. 27.10.4
in A. Corbino – M. Humbert – G. Negri (a cura di), Homo, caput, persona. La costruzione
giuridica dell’identità nell’esperienza romana (dall’epoca di Plauto a Ulpiano), IUSS Press,
Pavia, 2010, pp. 273-281;